Ho attraversato dieci paesi, superato confini, dormito nei boschi e nei capannoni, mangiato decine di scatolette di insalata messicana e ho fatto il bagno nei fiumi. Da questo viaggio ho cavato 240 pagine per Einaudi, un libro a cui abbiamo dato come titolo La guerra invisibile, un viaggio sul fronte dell'odio contro i migranti. Sono partito da Briançon, Alpi francesi, e sono arrivato sulle montagne che separano la Turchia dall'Iran.

La rotta che non c’è

Volevo vedere e raccontare la rotta dei Balcani. Poi ho cambiato idea e ho scritto un altro libro perché la rotta dei Balcani non l'ho trovata.
Il contenuto è presto riassunto: i migranti non sono tali, è una classificazione comoda e rassicurante, che non legittima questi uomini, donne e bambini. I migranti sono i nostri nemici e quelli che chiamiamo confini altro non sono che linee fortificate, dove la vita si svolge su un piano militare.
È la nostra guerra, quella di noi buoni.

Ci sono muri, droni, armi, trincee, osservatori e tante, tantissime divise militari: da Trieste in avanti,  ho camminato e viaggiato seguendo un grado crescente di violenza e repressione.
L'apoteosi è il confine turco greco, quello che Ursula Von der Leyen definisce «il nostro scudo». Lì le cose si fanno davvero per bene, non passa nessuno e chi ci prova poi ha un compito, dopo che è stato brutalmente respinto: spiegare con chiarezza a quelli che ci vogliono provare che è meglio non fare quel primo passo verso il fiume Evros, di notte.

Ne ho trovati a decine, ammucchiati nelle cantine di Edirne, i corpi martoriati dai lividi, gli occhi incavati dentro il teschio, che mi guardavano come animali terrorizzati.

Il “nostro scudo” funziona benissimo anche in mare, perché uomini vestiti di nero il cui volto è coperto da un mefisto, raggiungono le barchine che partono da Smirne alla volta di qualche isola greca e lì sopra, senza dire una parola fanno ciò che mi ha raccontato Liza, siriana di Aleppo: “sono saliti e senza dire una parola hanno raggiunto la poppa. Armi in pugno. Uno di essi ha smontato il motore e l'ha gettato in mare. Poi sono scesi dalla nostra barca e se ne sono andati”.

Fine.

Il nemico annientato

Pensavo di trovare esodi di massa, non ho trovato praticamente nessuno nei Balcani perché il nostro nemico è stato semplicemente annientato su questo fronte orientale dove ora è tutto tranquillo.

Sopravvivono alcune sacche di resistenza: jungle camp dove vivono allo stato primitivo, tra pozze di merda e cani randagi che mordono tutto quanto si muove, anarchici che portano le docce da campo rischiando l'arresto, donne di buona volontà che curano le piaghe marcescenti dei piedi; in alcuni campi di accoglienza, definizione un po' forzata, il nemico riposa, commercia, triga per recuperare denaro; qui piccole squadre di donne tentano con successo di ricordare a questi esseri umani che non sono bestie, e quindi li portano dentro tendoni bianchi dove possono giocare a ping pong o indossare una camicia bianca e mettere il gel nei capelli per far colpo su una di queste cooperanti.

Ogni tanto arrivano dei politici e allora va in scena un grande show che rallegra ma annoia al contempo.

Al di là di queste risibili sacche di resistenza nemica c'è il mercato totale della migrazione, dove tutto ha un prezzo: scarpe, coperte, documenti, cibo, caramelle, farmaci, sesso. Oggi è in mano a cosiddetti “smugglers”, piccoli trafficanti un po' meno disgraziati tra i disgraziati.

Ne ho incontrati alcuni, e direi che mi sono piaciuti: sono cristallini. Uno un giorno mi ha detto: “Io e te facciamo lo stesso mestiere. Io e te viviamo perché esistono le frontiere. Dio benedica gli Stati che chiudono tutti i confini”.
Non gli ho chiesto più niente.
L'orrore. Se lo state cercando il mio libro ne è ricolmo.

La ricerca dell’orrore

Poi un giorno parlavo con il mio amico e consulente in videogiochi Samuele Triveri Ricci, tredici anni, e gli ho chiesto: ma tu il mio libro lo leggeresti? È un ragazzo molto sveglio. Per rispondermi ha fatto un giro di parole perché mi vuole bene, ma la sostanza era “no”.

Premesso che con il mio passaporto super blindato, la mia pelle bianca abbronzata, i miei occhiali da sole e soprattutto la mia carta di credito, non ho mai corso alcun pericolo reale, almeno da parte degli uomini, premesso questo ho sempre avuto la sensazione durante il viaggio di essere dentro un gioco. Mi tornavano spesso in mente Tomb Rider e Metal Gear Solid,  giochi degli anni novanta che fecero la storia.

Così, quando Samuele mi ha risposto così, dato che lui è un super appassionato di Fortnite, gli ho chiesto: «Se anziché un libro avessi fatto un videogioco sui migranti?». E lo sventurato rispose: «Sì, ci giocherei. Secondo me un videogioco interattivo è meglio di un libro perché nel video gioco puoi interagire, puoi vivere TU quell'esperienza, nella lettura, sopratutto di questi temi, vi è quella sensazione di distacco dalla nostra realtà. In un videogioco puoi proprio vederla con i tuoi occhi, esserci dentro».

Al prof. Umberto Galimberti queste argomentazioni proveranno tutte le critiche, e relative invettive, che avanza sul rapporto giovani tecnologia, ma come scriveva il futurologo Kevin Kelly al termine degli anni Novanta nel suo visionario  Out of control e parafrasando un celebre passo de Le relazioni pericolose, tutto questo «trascende ogni controllo».

Il tema della traslazione della realtà culturale tutta in realtà videogiocata tout court è già stato trattato, si pensi a Baricco.

Esiste perfino un videogioco sulla rotta dei Balcani: si chiama The game, è gratuito e consente di mettersi nei panni virtuali di un ragazzo afghano lungo l'ultimo tratto di viaggio, dalla Bosnia Erzegovina all'Italia.
Incuriosito e turbato ho cercato un contatto con quel mondo, e ho trovato Federico Ercole, uno dei massimi esperti del settore, e per gioco abbiamo scritto una piccola sceneggiatura che prende  spunto dalle mie pagine.

Come direbbe il dottor Frankenstein Junior, «si può fare». D'altronde in molti a questo punto della lettura stanno pensando a un ibrido mostruoso.

Quanto deve essere impegnata la letteratura, ci si è domandati su queste pagine? Ovviamente secondo me molto se no non avrei fatto quello che ho fatto mentre il mondo tremava al pensiero di andare in pizzeria. Ma stiamo parlando nel deserto, è inutile negarlo.

Enormi mondi si muovono là fuori, i social che ancora noi consideriamo moderni sono già defunti, mentre la loro evoluzione si è spostata sulle piattaforme, spesso legate ai videogiochi, sconosciute.
Inoltre i videogiochi sono già impegnati da un bel po' di tempo: si chiamano serious game e su di essi esiste una letteratura che in molti ignorano.

Allargare

Il libro che ho scritto sarà letto esclusivamente da coloro che l'orrore della migrazione lo conoscono già, penso che fin da ora si possa dire con qualche sicurezza il numero delle copie vendute e suppongo anche il nome e cognome della metà di coloro che lo compreranno. Si tratta quindi di allargare, di portare questi contenuti dove «non ne so niente», sfondare le colonne d'Ercole.
Disimpegnare per impegnare.

Presso l'Università degli Stranieri di Siena, in collaborazione con la docente di critica letteraria e letteratura comparata, Tiziana De Rogatis, ho tenuto un piccolo tirocinio sui meccanismi della narrazione delle migrazioni. Un giorno ho portato le tirocinanti, erano tutte donne, in un bosco e ho fatto fare loro un gioco di ruolo sulla frontiera che mi sono inventato pensando a cosa avevo visto: chi ha pescato la carta rossa si è trovata a fare la migrante, chi ha preso quella blu afferiva alle varie polizie di frontiera.

In mezzo altri ruoli: cooperante, anarco insurrezionalista, avvocata di frontiera. Il livello di repressione simulata è stato una frazione centesimale delle realtà, c'erano risate e allegria, ma faceva comunque impressione vedere certe scene e sopratutto leggere i commenti proprio di chi «non ne sapevo niente».

Alla fine le ho chiesto: voi trasformereste le pagine del mio libro in un videogioco? La risposta è stata positiva, in massa.

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