Cosa resta di un affetto, un amore, e cosa di noi stessi, di ciò che siamo stati, quando veniamo abbandonati? Ilaria Bernardini, scrittrice e sceneggiatrice, se lo chiede nel suo ultimo romanzo Il dolore non esiste, Mondadori 2024, in un dialogo con Achille, il padre che non le parla più. Un vuoto che inghiotte il presente di Bernardini e che, voragine che porta al centro della Terra, non smette di cacciar fuori i ricordi che la legano a lui.

Bernardini, la ragione per cui ha scritto questo romanzo?

Due, in realtà: una ha a che fare con me stessa, l’altra con chi mi avrebbe letta. Da anni avevo in testa delle frasi, mi rimbalzavano dentro in modo ossessivo, una tra tutte: mio padre si chiama Achille e non mi parla. Occupavano troppo spazio e ho deciso di metterle sulla pagine per provare a sgravarmi un po’ del loro peso. E poi ho sempre avuto la sensazione che il vuoto che sentivo dovuto all’assenza di mio padre avesse contorni simili a quelli che molti si portano dentro: usare la mia storia per interrogare i vuoti di tutti è la seconda ragione.

Da dove vengono le frasi che le rimbalzavano dentro?

Forse dall’infanzia: la poeta Louise Glück scrive che guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria, ecco: quelle frasi mi portavano ancora e ancora ad abitare una storia che avevo vissuto da bambina.

Dunque erano i ricordi a tormentarla.

Memoria fallata. Un ribattere sempre con lo stesso solfeggio.

Scrivere l’ha aiutata?

Non credo di scrivere per aiutarmi.

Ha parlato di memoria fallata.

La memoria spesso è interpretazione, fraintendimento. Nella mia famiglia ci sono eventi enormi che ricordiamo in modi diversi.

Un esempio?

Sono certa d’aver salvato mio fratello che annegava: l’odore del cloro, l’acqua fredda, i muscoli che sono scattati veloci, sicuri. Ricordo di essermi immersa, e averlo riportato in superficie, ma mia sorella ricorda d’esser stata lei.

Chi è stato, quindi?

Non lo sappiamo.

Iniziamo a parlare di lui?

Achille.

Suo padre.

Difficile separare il personaggio che ho creato dentro me stessa, una specie di statua che sta lì a mio beneficio, dalla persona.

Me lo descriva.

Un eremita con l’idea che la solitudine sia la forma più alta di felicità. E anche uno studioso, vorace d’idee, uno che ha preso tante lauree, che guardava tanti film, che giocava a scacchi da solo.

Si è interrogata circa questo desiderio di solitudine?

Più volte. È cresciuto in collegio, da bambino è stato malato ed è dovuto stare in ospedale, senza la propria famiglia accanto, per mesi interi. Un allenamento all’abbandono, e alla sofferenza, fin da piccolissimo. Una volta, la redazione di un giornale mi ha chiesto di compilare il questionario di Proust e io l’ho mandato a lui, per scherzare. Domanda: qual è la tua idea di felicità?. Risposta: andar in prigione per poter finalmente pensare, solo.

È possibile, quindi, che oggi tenda ad abbandonare come per anticiparlo, l’abbandono? Una sorta di meccanismo di difesa.

Sì, è possibile.

Crede che si riconoscerà nel personaggio del suo romanzo? Ché, in fondo, per quanto la sua sia autofiction, l’Achille del libro è un suo personaggio.

All’inizio sì, e poi sempre meno fino a non riconoscersi proprio. Un po’ come capita a tutti noi quando ci guardiamo in una foto.

Tornando alle ragioni per cui ha scritto Il dolore non esiste: possibile che lo abbia scritto anche nella speranza di muovere una sua reazione?

Non saprei. Oggi l’idea che possa tornare nella mia vita mi sembra gigantesca, tanto grande da non esser capace di elaborarla. Cerco di gestire quello che mi capita se e quando capita, e quello che ho immediatamente attorno o vicino, stando nel presente: altrimenti vengo sopraffatta.

Perché suo padre non le parla più, dov’è la frattura?

Non lo so, me lo sono chiesta tante volte. La sola risposta che sono riuscita a darmi è che non voglia comparire nei miei libri.

Quindi ne ha scritto uno interamente su di lui.

(Ride, ndr) Alla sua domanda credo ci siano molte risposte, in effetti. Magari, mi sono detta, gli somiglio troppo e odia specchiarsi in me, o magari è proprio l’opposto. Ad ogni modo, una vera e propria frattura non so rintracciarla.

L’ultima volta che l’ha incontrato?

Non la ricordo, ho un vuoto. Ed è incredibile, me ne rendo conto solo adesso, parlando con lei - scrivendo non l’avevo realizzato. Forse al mio matrimonio. Non sapevo che sarebbe venuto e mi sono sposata all’estero. D’un tratto, l’ho visto spuntare: era lì, tra gli invitati - non mi aveva neanche salutato.

Vi siete parlati, quel giorno?

Mi ha detto solo sei bellissima. Poi è sparito.

Certo che è un performer, suo padre.

Oh, sì. Ama la performance.

Il ricordo più bello con lui?

Ero piccola, avevo una brutta otite: ha trascorso tutta la notte con me, su un divano, a tenermi una mano pigiata sull’orecchio per darmi un po’ di sollievo.

Rimanendo sull’infanzia: in cosa gli disobbediva?

In tutto, per me infrangere certe regole era irresistibile, e poi rispondevo male, sbattevo le porte, urlavo.

Lui in cosa le disobbediva?

Tradendo il patto genitore-figli che comporta il non esser violenti. E che comporterebbe anche il non abbandonare.

Torniamo alla perdita: cosa resta quando perdiamo qualcuno?

Che fare di un abbandono? Dobbiamo scegliere la rabbia, la vendetta? O magari cercare di trovare una nuova maniera di stare nel mondo? Di guardare noi e gli altri?

Non mi ha risposto. Anzi, mi ha rimbalzato la domanda, facendone altre.

Perché una risposta secca non ce l’ho! Lei sì?

Ho delle teorie, ma qui le domande le faccio io.

[Ride, ndr] Cosa resta quando perdiamo qualcuno? Una ferita, e compito nostro è evitare che s’infetti.

È l’orgoglio a esser ferito?

Anche, ma non solo. Il dolore per una perdita è reale, esiste davvero, ma certo è anche che a essere ferito è pure l’ego: veniamo rifiutati, e una delle idee con cui è più difficile scendere a patti è che la persona che amiamo, e di cui non vorremmo far a meno, è assolutamente capace di far a meno di noi. Crediamo di non esser amabili perché qualcuno smette di amarci, o continua a farlo ma solo da lontano.

Quando sono stato abbandonato, in passato, a farmi soffrire di più, oltre all’idea di non far più parte della vita dell’altro, è stata la sensazione che, andando via, quella persona stesse portando con sé un pezzo di me stesso.

È riuscito a dar un nome a questo pezzo?

No.

Credo sia l’amore che lei ha donato all’altro: quando qualcuno ci abbandona, si sottrae, sentiamo che con sé sta portando l’amore che gli abbiamo dato. Ma vivere senza amare per paura di soffrire, poi, sappiamo che non ha alcun senso. Quindi, tanto vale.

Tornando a suo padre. Lo ha mai odiato?

Mai. Non lo odio. E poi ho sempre pensato che se odiamo qualcuno, verremo puniti.

Io odio senza problemi: se lo faccio è perché mi è stato fatto del male.

Non vuole che pace e amore vincano?

Ma certo, non sono un guerrafondaio. Mi concedo di odiare per il tempo necessario a traversare il dolore.

Mi scusi, ma quello non è odio: è rabbia. E sì, mi sa che dobbiamo traversarla.

Nel libro scrive che suo figlio e suo padre si parlano, s’incontrano.

È così.

E?

E sono contenta. A mio figlio chiedo cosa si dicano, ma lui non mi risponde.

Perché?

Qualcosa nei maschi della mia vita forse viene respinto dalla mia scrittura.

A proposito: suo figlio ha letto il libro?

Non tutto. Però vuole. Anche se non dev’essere facile per lui pensare di leggere precisamente quello che sua madre pensa, e pensa di lui. Che poi, ovviamente, non è precisamente quelle che penso e lui non è precisamente lui.

Bernardini, quest’ultima domanda la faccio sempre, a tutti: immagini di avere ottant’anni, che sia domenica mattina: con chi è, cosa fa, dov’è? E, oggi, per lei aggiungo: sta pensando a suo padre?

Mi vedo ancora scrittrice, con tanti animali attorno, in una casa luminosa. Mi vedo serena, ma con una preoccupazione - e qui rispondo anche su mio padre: lui sarà morto, e con lui se ne sarà andata l’ultima barriera che mi proteggeva dal burrone della morte: vede, pure se non mi parla più, in qualche modo, finché è vivo mi difende dalla voragine. 

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