Dovevo aver commesso in passato un crimine terribile e imperdonabile, tanto da essere stato mandato, dopo un processo di cui non ho più ricordo, in questa prigione di massima sicurezza. Di sicuro hanno ancora una terribile paura di me, dal momento che la prigione è concentrica, e i cerchi sono infiniti, e le possibilità di evasione inconcepibili. Sono stato murato vivo in questo luogo, in questo tempo, in questo globo di cristallo in cui nevica sopra un paesino artificiale, in questa conchiglia barocca di madreperla rosacea, in questa chitina che mi copre persino gli occhi con la sua membrana diafana come un’unghia. Strato su strato, la mia cella mi stringe, mi schiaccia, mi liquefa al suo interno, m’impedisce, simile a un dolore atroce e senza fine, di pensare lucidamente, di esistere realmente. È più di quanto chiunque possa sopportare, vivere irrigidito in un blocco di ghiaccio, gridando in maniera impressionante, senza emettere un suono, dentro una goccia d’ambra. Avrei tanto voluto non essere mai nato.

Sabbia nella conchiglia

Non so quando mi ci hanno portato o come ho vissuto prima. Sono stato in qualche modo inoculato al centro della mia prigione, coscienza pura, senza un mondo esteriore, senza pensieri o ricordi. Oppure hanno costruito la prigione intorno a me. O forse sono qui da sempre, e questo da sempre è soltanto uno dei muri che mi circondano. Fatto sta che sono solo. Io è il mio nome, nessun altro lo porta. Poiché al tormento di questi muri che rodono e ulcerano il mio essere doveva aggiungersi anche la solitudine, ugualmente pura e totale come me stesso. Più volte mi sono chiesto se per caso io non significhi soltanto questo: solitudine. Come è possibile immaginare un bicchiere d’acqua fatto di acqua, o un occhio fatto della sua vista. Che io sia per caso solo questo, una fiala di solitudine incastonata in una montagna sconfinata?

Quando un granello di sabbia penetra nella polpa di una conchiglia, viene avvolto in strati su strati di madreperla, fino alla perfezione grigio-lucente della perla. Impazzisco anch’io al centro di una perla. Per conservare il mio esercizio interiore e il diritto di chiamarmi io, ho giocato molti ruoli. È la mia unica libertà, se non è per caso il mio primo muro. Ho inventato dapprima i numeri, perché i numeri sono soli come me. Essi sono me, non si rivolgono a nessuno. Non chiami nessuno con dei numeri, non ti risponde nessuno con dei numeri. Passi soltanto le tue dita su di loro come sulle vertebre di un serpente interminabile.

Per tutto il tempo che sono rimasto in prigione ho contato i primi eoni fino a che ho terminato tutti i numeri, restando per un tempo secolare sopra ogni cifra. Dopo aver terminato il primo infinito, sono passato al secondo e così via, finché sono arrivato a un infinito di infiniti. Poi, a un infinito elevato all’infinito. E a una sequenza infinita di infiniti elevati all’infinito. Sono sprofondato nell’abisso tra zero e uno, e lì, simile a certi pesci delle profondità che si divorano a vicenda, ho contato gli infinitesimali, più ancora degli infiniti precedenti, infinità interminabili che ho comunque finito di contare per passare poi all’abisso tra uno e due, e a tutti gli altri abissi. Questi giochi sono durati un istante soltanto dei tanti istanti in cui ho da sopportare il supplizio di questa prigione, ben più di tutti i numeri, razionali e irrazionali e razionalmente-irrazionali, e di chissà quanti altri tipi che ci saranno ancora stati.

Le ombre delle parole

Ho inventato quindi il linguaggio, un pugno di ossicini secchi di piccione, leggeri come carta, uniti con fili di tela di ragno e con una rotazione lenta, e un suono secco, nelle correnti d’aria dello spazio logico. Che suoni strani emettevano un se e un però, un forse e un dunque, un quando e un poiché sfiorando le proprie nervature, che melodia nostalgica sussurravano un mai, un no, un ho, un ancora, un già, un tanto, un da e un solo quando si appigliavano gli uni agli altri e gli uncini aguzzi come spilli al mio essere incarcerato… L’ho sempre saputo, giocando con le parole, che gioco soltanto con le loro ombre, con i loro cadaveri rinsecchiti, con le loro mummie sinistre, perché il linguaggio vivo ha bisogno di te, e tu è un nome che non porta nessuno, un nome assurdo, impossibile come la mano disegnata che esce fuori dal disegno e disegna la mano che la disegna. La prigione è compatta e infinita, dove entrerebbe un tu in tutto questo racconto? E se pure fosse possibile immaginare due esseri incastonati nel ghiaccio perenne, con le labbra dell’uno separate da un esile strato di ghiaccio dalle labbra dell’altro, a un micron di distanza, a un angstrom di distanza, da dove prenderebbero il calore di un respiro capace di sciogliere la membrana cristallina, affinché le parole possano circolare da una bocca all’altra e prendere vita? Non saprò mai com’è realmente il linguaggio, come si presentano le parole quando sono piene, compatte, calde ed elastiche come le anguille o come i lombrichi, come si vedono le squame lanose sull’ala della parola libellula quando vi cade sopra la lente levigata della parola rugiada.

Ho inventato così tanti giochi da quando mi trovo in prigione, che potrei tranquillamente dire che ho inventato il mondo. Il gioco supremo, oltre il quale un altro non è più possibile per mancanza di tempo, spazio, causalità, predestinazione, terrore, brivido, demenza, distruzione, catastrofe, l’ho giocato da ultimo, lo gioco ancora, così come il cieco tasta di tanto in tanto il proprio corpo per assicurarsi che ancora esiste, poi però subito se ne rammarica, perché l’angoscia che proverebbe passando le sue dita sul vuoto è nulla rispetto al pensiero che, solo tastando il proprio corpo, lo ha di fatto inventato.

Triplice inferno

Suddivido l’inferno in cui mi trovo in tre prigioni costruite l’una intorno all’altra: di carne, di vento e di polvere. Attorno a loro c’è il cerchio di buio su cui non è possibile dire nulla, può essere solo indicato col dito, poiché non siamo forse altro che questo: un dito che esce dalla notte per indicare in direzione della notte. Il primo muro che mi stringe come dentro una tenaglia si chiama claustrum. È una membrana di neuroni ondeggiante tra l’isola e il putamen, al centro della costruzione tragica che chiamiamo cervello. Una membrana come fosse di carta su cui qualcuno ha scritto un solo nome: il mio nome, io. Separala dal cervello e guardala in trasparenza: milioni di neuroni scrivono in bella grafia nel loro ricamo la parola io, che pulsa simile a un cuore nella testura. La sua pulsazione si trasmette mediante i neuroni giganti dai bordi della membrana, che circonda l’intero cervello, suggendo le sue parti lontane, stillando da esse il latte denso, luminoso della coscienza di sé. La membrana si gonfia in questo modo della sua sostanza e diventa una sfera, la perla mistica in cui vive il mio nome. È questo il claustrum: le prime pareti della mia cella, le mie pareti di madreperla abbacinante.

Il secondo muro è il cervello, che mi riempie il cranio e spinge negli anelli delle mie vertebre il suo agile codino da spermatozoo. Forse sono soltanto questo tutti i cervelli del mondo: spermatozoi incastonati in ossa e in carne, come me tragicamente prigionieri. Non si affrancheranno mai dal loro cranio e dalle loro vertebre, per quanto batteranno i pugni, dall’interno, contro l’osso giallo della fronte, e non la manderanno in frantumi per poter cominciare finalmente a nuotare al tramonto verso il sole dell’ovulo che li aspetta da sempre. È possibile che il mio cervello, l’unico reale, poiché mi trovo al centro di esso, mentre gli altri sono quelli sognati da me, sia quello predestinato ad arrivare per primo alla fantastica sfera, per dissolvere il proprio cranio nella sua immensità gelatinosa, cocente come il magma stellare, e cominciare insieme una nuova mitosi, una nuova mitologia. Però la sua polpa grigiastra, che circonda la polpa bianca del claustrum, è a sua volta compressa dalla carne rossa del mio corpo al di là della barriera cervello-sangue. Il palazzo cerebrale è circondato da mura non per difendersi ma per non tracimare all’esterno.

Di fatto il terzo muro è il corpo, carne rossa compressa dalla pelle così come il cervello è compresso dal cranio, così come il seme portatore di vita è oppresso dalla polpa fibrosa della pesca e dalla sua pellicina lanuginosa. Che pantano di organi avviluppati da membrane sierose quasi fossero tele di ragno! Cosa ho io in comune con te, cuore? E con te, fegato? E con voi, visceri? E con voi, vene e arterie? Cosa con i vostri tessuti, per quanto vivi possano essi essere? La loro vita mi dà la nausea. La suddivisione delle suddivisioni di questa carne mi porta alla disperazione, così come le pietre dei muri e il ferro delle grate fanno impazzire un prigioniero. Cosa ho a che fare io con la materia? Cosa m’importa delle molecole di cui sono fatti i miei tessuti, degli atomi delle molecole, dei loro bosoni e dei loro fermioni, dei loro quark, della schiuma di spin della scala di Planck? Che rapporto ho io con le leggi della fisica e con i campi quantici di cui è fatta la mia carne, ma non anche io, io, io? Non sono il mio stomaco, né i miei occhi, né la mia linfa, né la mia lingua, né le mie unghie. Se pure li chiamo miei, non hanno alcun rapporto con me; anche se al mattino mi lavo, lavo questa faccia che non è la mia, queste mani che non sono le mie, così come pure la mosca lava i suoi occhi con le zampe anteriori. Non mi merito lo scherno e la vergogna di essere dentro un corpo, il mio corpo, il muro che mi stringe a tenaglia, il più brutale custode della mia carcerazione eterna.

Tutt’uno con il grido

Polpa bianca, polpa grigia, polpa rossa. Gli anelli concentrici del mio inferno, le bolge della città di Dite. E poi la pelle della mia fronte, su cui è scritto lasciate ogni speranza. Prigioniera nel claustrum, nel cervello e nel corpo, la mia pelle mi separa dal più vasto dei muri, il muro spesso quanto il mondo, perché è il mondo stesso. Il mondo stesso, l’aria intorno alla mia pelle, le case intorno all’aria, le foreste intorno alle case, i cieli e le piogge e gli arcobaleni ricurvi sopra di me, le centinaia e le migliaia di esseri umani con cui il mio corpo saltabella nel rumore assordante del tempo, gli aerei che brillano di notte nel firmamento, le città e le isole e i promontori del nostro globo luminoso, il vuoto pulsante fra i corpi celesti, le distanze enormi eppure minuscole tra ogni cosa, la luce che si trascina con esasperante lentezza in mezzo alla polvere di stelle, quindi tra la polvere di galassie allineate come gocce di mastice su un’inconcepibile ragnatela, bilioni, trilioni, quadrilioni, quintilioni, sestilioni di galassie e sciami di galassie che formano il Grande Attrattore e il superammasso Laniakea, ondeggianti simili alle alghe nelle correnti marine, il mondo senza limiti in cui la mia coscienza è sepolta è il muro di uno spessore infinito che sta intorno a me, intorno al mio io, intorno all’unico balenio che lo illumina.

E il suo infinito è solo uno tra quelli più piccoli, poiché, così come esso incorpora questa pagina, con le sue due dimensioni, così è a sua volta incorporato, compresso, strettamente fissato, preso e alla fine annientato dal mondo prossimo, quello a quattro dimensioni, chiuso nel mondo a cinque dimensioni e sempre così, fino al mondo con un numero infinito di dimensioni e a quello con un infinito elevato alla potenza d’infinito di dimensioni e a quello con un infinito alla potenza d’infinito elevato alla potenza d’infinito di dimensioni e così via fino alla fine dello spazio, del tempo e della ragione.

Quanto grave dovrà essere stato il mio peccato, quanto mostruoso il crimine che ora espio! Quanta paura hanno di me, per gettarmi in queste bare concentriche, tutte della forma della mia mente! Quanti e quanti secoli avrò per piangere! Contando, sono arrivato alla fine dei numeri. Parlando, sono arrivato alla fine delle parole. Non ho più nulla da dire ora a me stesso. Simile ai dannati eterni dell’inferno, sono diventato tutt’uno con il mio grido.


Il testo è un estratto da Melancolia di Mircea Cărtărescu (La Nave di Teseo 2022, pp. 272, euro 20)

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