Il tavolo è ancora apparecchiato. I resti del pranzo di noi tre, mamma, papà e figliola, sono liquefatti. Sono le quattro di pomeriggio, aspetto che diminuisca la calura. Da un’altra parte ho una casa tutta mia, da un’altra parte io sono la madre. Qui si riprende da dove tutto era rimasto. Cioè all’ultimo pranzo di 15 anni fa, prima che me ne andassi e sparecchiare toccava me. Sono ritornata per un funerale, mia nonna materna è mancata all’improvviso, le parole di mia madre al telefono erano queste. La nonna, aveva solo 94 anni.

Lo squillo del telefono fende il silenzio. I miei genitori riposano nella loro camera. Li immagino sdraiati, ognuno nel suo letto con la faccia rivolta al muro. Mia madre si era trasferita nell’altra stanza, dopo che noi figli ce ne eravamo andati lo spazio c’era. Papà l’aveva seguita, mi annoio da solo, le aveva detto. Così lei era ritornata, ma al posto del letto matrimoniale ne aveva messi due.

Il telefono continua a squillare. Nessuno di loro due si muove. Le mie mansioni superano quelle del passato, una volta si rispondeva per gerarchia, a me toccava quando anche mamma era assente.

Aiutami, dice una voce maschile. Lo ripete più volte nel giro di pochi secondi.

Chi parla? Dico io, credo che abbia sbagliato numero.

L’ultimo banco a sinistra, dice velocemente per non lasciarmi il tempo di mettere giù.

Scivola, come un’onda verso il mare, canticchia lui flebilmente per darmi un aiuto.  

Andamento lento, rispondo io come se fossi in un quiz televisivo e ne avessi colto al volo l’aiutino del conduttore.

Rony, sei tu?

Sei l’unica che può farlo, dice lui e si interrompe la linea.

Chi era al telefono? Chiede mia madre più tardi.

Nessuno, rispondo io. Avevano sbagliato numero.

Dov’è finito

Quella notte non riesco a prendere sonno. Mi alzo e vado a cercare le foto del liceo. Stanno nello stesso comodino vecchio, quello che la nonna morta aveva dato in dote a mia madre. Le case dei genitori ad un certo punto si trasformano in musei, nulla si sposta dal loro posto.

Eccoti qui Rony mio, alto e magro, in un lupetto color panna. I capelli biondi divisi al centro come quelli di Jon Bon Jovi, non esattamente della sua lunghezza anche se lo avresti voluto.

Cantava le sue canzoni come anche quelle di Tullio che chiamava per nome. Grande batterista, diceva, l’unico italiano che del vero rock ne capisce qualcosa. Io del vero rock non capivo granché, ma mi fidavo di Rony. Trottolavo accanto a lui, a volte conciata come Madonna altre come Loredana Bertè. Nella versione della prima, mettevo un fiocco in testa e un neo finto con la matita completava il travestimento. La Bertè era più difficile, mi mancava sia la minigonna di jeans che gli stivali. Compensavo con i capelli, vaporosi e spettinati. Aggiungevo anche l’atteggiamento. Non che la conoscessi, cercavo solo di imitare i suoi movimenti in scena. Il mio palco era il cortile della scuola durante la ricreazione.  

Eravamo bizzarri noi due. Lo chiamavano, “il matto”. Io matta non lo ero anche se avrei tanto voluto. Fingevo di esserlo. E lui di essere normale. Nessuno dei due era credibile, ci bastava essere felici e forse insieme lo eravamo. 

La mattina dopo, seduti in balcone a prendere il caffè, chiedo a mia madre, sai per caso dov’è finito Ronald?

No, dice lei. Ma chiedo.

A chi? Dico io.

A sua madre, risponde lei. La vedo spesso al mercato della frutta. L’ho vista anche ieri, mi ha chiesto di te e le ho detto che eri venuta per salutare tua nonna. Da morta, aggiunge dopo un po’.

Vede che ignoro il suo sarcasmo e riprende il discorso.

Dirò a Rony che è ritornata, mi ha detto lei, prima di salutarci.

E di lui non hai chiesto?

No, dice lei, povera donna, avere un figlio pazzo non deve essere facile. Non chiedo mai, non voglio rinnovare la sua ferita. Lo dice come se si trattasse del rinnovo della patente.

Ci ripenso un momento e dico, ma se sai come stanno le cose cosa le vuoi domandare?

Sei tu che lo volevi sapere dove era finito, dice lei girando il cucchiaino dentro la tazza. Chiedo e ti dico in quale manicomio è ricoverato. Magari sta ancora in quello della nostra città.

Mi verso il caffè addosso, la camicia da notte si inzuppa tutta. Ha fatto carriera Rony, penso io, è salito di grado, da matto a pazzo patentato.

Manicomio? Riesco a dire con un filo di voce.

L’espressione “dov’è finito” da parte mia riguardava i paesi del mondo dove la nostra generazione si era sparpagliata dopo la caduta del muro di Berlino. La geografia degli spostamenti di Rony invece si era limitata ai pochi manicomi del paese.

Eh si, riprende mia madre suggendo il caffè, dopo l’ultimo accaduto… e si stringe nelle spalle.

Io non so il primo, non so l’ultimo, nulla so di Rony.  

Così lei mi racconta che la prima volta si era tagliato le vene nel lavandino di casa. Affonda la sua lingua nera per il caffè appena bevuto nei particolari della vicenda. Sua madre, Iva, butta giù la porta del bagno e lo trova piegato in avanti con le vene aperte dal rasoio mentre guarda il sangue che scorre. I polsi allineati vicino allo scarico, un lavoro molto pulito il suo. Stava svuotando il sangue dal suo corpo come se fosse una bottiglia, nessuno schizzo attorno. Chissà se in quel momento non pensava a sua madre che avrebbe dovuto pulire, è sempre stato cosi legato a lei. Rony era uno che aveva cura di tutto ciò che amava.

Penso a Iva, a quella donna minuta stretta sempre nei suoi tailleur in stile Margaret Thatcher. Persino i capelli erano uguali a quelli di Margaret, a differenza sua non era nata baronessa e non era diventata una lady di ferro. O forse si, ho sempre avuto dei dubbi sulla seconda. Iva era una ragazza madre trasferitasi dalla capitale in provincia per crescere suo figlio. Si era rifiutata di regalare suo figlio allo stato. Quella puttana che aveva aperto le gambe a qualcuno prima del matrimonio, aveva anche precluso il futuro del figlio, nelle braccia dello stato sarebbe cresciuto meglio. Sarebbe stato il bastardo dello stato, anziché di quella donna poco di buono.

Chissà se la sua ossessione fisica nei confronti della Thatcher non era nata per proteggere il figlio, qualcuno può associare l’aspetto di Margaret a una puttana?

Me la ricordo quando andavo a studiare a casa loro, finalmente suo figlio aveva degli amici, cioè gli amici ero io, ma a Iva piaceva parlare di me al plurale.

Tesoro, strillava quando mi vedeva arrivare, i tuoi amici stanno già qui!

Non so se all’epoca mia madre sapesse di tutte le mie visite, in ogni caso non mi ha mai vietato di andare a casa di quella donnaccia e non ha mai chiamato mio amico “il bastardo”.

Una brutta faccenda

E l’ultimo accaduto? Chiedo veloce avendo paura che me li racconti tutti.

Finché si era trattato di mettere in pericolo la sua vita la povera Iva era riuscita a tenerselo a casa.

L’ultima vicenda non riguardava più loro due.

C’era una giovane ragazza che abitava vicino a loro.  Madre e figlio stavano ancora nell’ultimo piano della palazzina di cemento colato residuo della società dell’uguaglianza. Accanto al cemento operaio erano nate le ville dei nuovi ricchi.

Non erano più uguali, ma entrambi guardavano il mare.

La vicina ricca di Rony amava leggere.

La vedo all’imbrunire seduta sulla riva a guardare il buio del mare. Come facevo io del resto e tutti quelli che leggono. E vedo Rony a passeggiare con lo sguardo spaesato. In mano un libro, di sicuro sarà stato Cioran, conoscendo i suoi gusti.

Hanno parlato la prima volta, così per caso. La ragazza ha iniziato ad aspettarlo, si ritrovano li ogni sera. Due anime perse e solitarie, gli occhi che brillano nella condivisione delle letture. Alle loro spalle sfrecciano le macchine Porche e Maserati con la musica a tutto volume. A bordo ragazze sue coetanee, i guidatori hanno l’età di Ronald.

La madre della ragazza a differenza della mia si vede che non era di larghe vedute.  O forse il padre, chi lo sa. Che la loro figlia andasse in giro con un pazzo sopravvissuto a diversi tentativi di suicidio tra altro, non era una buona cosa. Prima o poi le avrebbe fatto del male. Era solo una questione di tempo. Tutto si era risolto in fretta con Rony rinchiuso nel manicomio.

Una brutta faccenda, continua mia madre, con l’accusa di molestie sessuali è difficile scamparla oggigiorno. Ciò che interessa a tutti è chiudere in fretta e punire l’accusato.

Il colpevole, dico io.

L’accusato è sempre colpevole, dice mia madre e se non lo è per la giustizia lo è per la gente.

Per Ronald le cose si erano messe davvero male, il direttore dell’ospedale psichiatrico, nonché un ex deputato, è il padre di quella ragazza. È stato sfortunato, finisce lei il racconto.

Non capisco se si riferisce alla vita di Rony o alla posizione del padre della ragazza. Lascio cadere il discorso, con mia madre non è facile venirne a capo.

Pacchetto di sigarette

L’ospedale psichiatrico sta tra la collina e il mare. Mi chiedo se Rony sarà stato fortunato ad avere una camera vista mare. Ci ha vissuto tutta la vita di fronte.

Ah, mi fa il guardiano, vai a trovare il fusto che finisce un pacchetto di sigarette in pochi minuti? Sei una parente? Annuisco, accennando un mezzo sorriso. Non ricordo che lui fumasse ma ci siamo persi di vista quindici anni fa, quando io me ne andai via dopo il liceo.

 Lo vedo arrivare accompagnato da una portantina. Ha il collo talmente lungo e sottile che la testa gli pende leggermente in avanti. Come le margherite appassite dopo essere state colte dal prato. Mi riconosce subito e sorride da lontano, penso compiaciuta che gli anni sono stati clementi con me. Il pacchetto che stringe nella mano sinistra trema. Mi chiedo come faccia a fumare, non ha un accendino. E l’uniforme dell’ospedale non ha tasche.

I primi cinque minuti non ci diciamo nulla. Nel frattempo il pacchetto è già dimezzato. Tutti gli infermieri che passano si fermano davanti a lui. Lui allunga la mano e loro prendono le sigarette. Grazie amico, dicono facendo il primo tiro mentre si allontanano.

Ho tanti amici qui, dice lui, mi vogliono bene. Certo, non come me ne vuole mia madre, aggiunge dopo un po’ e poi sorride. Mi stupiscono i suoi denti bianchi che brillano sotto il sole.

Facciamo un giro? Dico io.

Aiutami mi dice lui, al secondo giro attorno alla struttura. L’erba è secca e non curata, ti allontani un po’ e diventa una discarica a cielo aperto. Ricordo la festa di maturità, il locale vecchio e noi due fuori seduti sull’erba, uguale a questa. Due birre, in mano i rivoli che ci scendevano sul mento dalle risate. Diciottenni che sognavano il mondo ed eccoci qui in un attimo, io la giornalista arrivata dall’estero e madre di due figli quasi adolescenti. Lui, ricoverato in un manicomio come pericolo sociale. Non vedo pericoli in lui, ma forse perché è mio amico.

Aiutami, mi dice di nuovo. Non l’ho mai toccata quella ragazza, aggiunge lui. E tu lo sai il perché.

Vorrei dirgli che gli credo e che il suo segreto è stato sempre al sicuro con me.  

Ricordi e segreti

L’orario delle visite è finito, lo lascio davanti alla sua stanza, conto otto letti. Almeno è vista mare, mi consolo mentre aspetto in fila davanti alla stanza del direttore.

Leon, si presenta lui. Una voce calda e profonda, quella voce che noi donne definiamo sexy. Mi allunga la mano, tozza e grassoccia. Si alza in piedi, il camice bianco salta due bottoni all’altezza dell’addome.

Perché t’interessa cosi tanto quel paziente? Mi chiede a bruciapelo.

Eravamo compagni al liceo, dico io. Lo conosco bene.

Sposto i capelli da un lato all’altro senza sosta, mi mordo le labbra, cose che faccio quando sono nervosa.

Nessuno conosce gli altri molto bene, risponde lui. La mente umana poi… e non finisce la frase.

Lo stato mentale del paziente è stato valutato da una commissione di psichiatri, riprende lui.

Ne faceva parte anche lei?

Ah no, dice lui, io non sono uno psichiatra.

Penso alle stranezze del mondo, uno dirige un ospedale psichiatrico senza essere psichiatra.

Gli dico che non ha toccato sua figlia, non avrebbe mai potuto.

Cosa fai nella tua vita da straniera? Mi chiede lui ignorando le mie parole.

Cose, rispondo io stringendomi nelle spalle.

E qui lui fa una pausa aspettando che io dica altro.

È un bene che hai smesso di suonare il pianoforte, eri davvero negata.

Sorrido, è vero balbetto, erano i miei genitori che ci tenevano tanto. Mi chiedo come fa questo signore a sapere così tante cose di me. Lo guardo bene, cerco una traccia che potrebbe ricordarmi qualcosa.

Bach si sarebbe rivoltato nella tomba se avesse potuto sentirti nella sua Toccata e fuga, aggiunge lui sottovoce.

Mi alzo di getto, spingo la sedia indietro e prendo la borsa poggiata sul tavolo. Sposto i fogli poggiati che volano sul pavimento, ricette ed altre condanne che aspettano la sua firma. Agile si sposta dalla mia parte, raccolgo io, dice come se io avessi in mente di riordinare la sua scrivania.  

Faccio due passi indietro, devo raggiungere la porta in fretta.

Sei sempre bella, continua lui, e non hai smesso di provocare gli uomini tu!

Corro verso le scale, mi fermo alla panca dove ero seduta con Rony. Ho bisogno di fumare, ho smesso alla seconda gravidanza ma ora voglio una sigaretta. In mezzo all’erba secca ne vedo una, sarà caduta a Ronald che le offre ai suoi amici. La raccolgo, chiedo ad una portantina che passa se ha da accendere. Respiro il fumo a pieni polmoni, il sole mi accarezza il viso. Rimango cosi finché non sento bruciarmi le dita.

Mi hai dato il segnale, sento rimbombare la sua voce. Che cosa credi, che non ho visto come spostavi i capelli mordendoti le labbra? Ora non ti muovere, se provi a gridare mia moglie arriverà ed è con te che se la prenderà.

Le sue mani cicciotte mi alzano il vestito, una afferra il mio seno l’altra apre la zip dei pantaloni. Il pianto della bambina nella stanza accanto, la voce della mia professoressa di pianoforte che cerca di calmarla. Mi penetra con un colpo secco, le mie mani stringono le partiture. Vai a pulirti, mi ordina lui indicandomi il bagno. Rivoli di sangue adornano le mie cosce magre, vomito piegata in due. il sangue mi ha fatto sempre impressione, sarà per questo penso. Esco dal bagno, la mia professoressa stringe la bambina accanto al pianoforte.

Cosa hai fatto? Dice lei. Io balbetto, lui seduto sul divano firma delle ricette.

Le partiture, incalza lei, indicandole, come fai a trattarle cosi?

Non mi sento bene, dico io e corro fuori.

Ti devo dire un segreto, dico a Rony il giorno dopo. Siamo a casa sua, Iva ci ha portato i pancakes al miele. Anch’io dice lui ma prima tu.

Non sono più vergine, dico io. Ieri ho perso la verginità.

È stato bello? Chiede lui.

No, dico io, era una cosa brutta e dopo ho vomitato.

Nei romanzi lo raccontano diversamente, risponde lui. Forse hanno ragione, altrimenti nessuno vorrebbe farlo. Gli racconto del marito della professoressa di pianoforte, tutta colpa della figlia che piangeva aggiungo io. La odio quella bambina.

Rimaniamo in silenzio a lungo, mangiamo i pancakes e il miele ci cola tra le dita.

Se sei preoccupata che non ti sposerà nessuno, io ti sposo, dice lui leccando il miele. Tanto io non potrò mai sposare una donna.

Ma io sono una donna, dico io.

No dice lui, sei la mia amica. Ci divertiremmo un sacco noi due, lo immagini?

Fuga 

Me ne sono andata via dal paese qualche mese dopo e qualcuno mi ha sposata. Rony, il mio Rony, è rinchiuso in un manicomio per molestie verso una ragazza, lui che ama gli uomini. Sono l’unica a sapere il suo segreto. E lui il mio.

Ed è sicuro che io possa salvarlo, si fida di me.  

Aveva ragione il direttore, nessuno conosce gli altri così bene.

Torno a casa a piedi, mi fermo al mercato della frutta. Cerco con gli occhi la pettinatura della Thatcher. Forse Iva non passa tutti i giorni, a che le serve tanta frutta da sola? Prima di andare a trovare il figlio, passerà dal tabaccaio.

Come stava il tuo amico? Chiede mia madre.

Bene, dico io. Riceve le cure necessarie.

Mi metto seduta sul divano. Lei mi porta il caffè. Io compongo il numero dell’agenzia di viaggi. Mi mettono in una lunga attesa, mi tiene compagnia Bach in re minore. Il mio lavoro è così, dico a mia madre, allontanando il telefono dall’orecchio.

Pronto? Finalmente quella fastidiosa musica ha smesso.

Di pomeriggio saluto i miei genitori con la promessa si ritornare presto.

Magari per il prossimo funerale, dice mia madre. Salgo sul taxi e quando costeggia il muro alto del manicomio io abbasso lo sguardo e giro lentamente la testa verso il mare calmo.

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