Che tempi. Basterebbe il finale dell’editoriale del numero della settimana scorsa di The Economist (strillo: “Zero-Sum”): «C’è ancora un po’ di margine prima che il sistema collassi completamente, danneggiando un numero incalcolabile di vite umane e compromettendo del tutto la democrazia liberale e il capitalismo di mercato. Il compito è enorme e urgente».

Ci si riferisce al rientro della manifattura nei rispettivi paesi, e alle restrizioni crescenti del flusso dei beni e dei capitali, al giogo della sostenibilità (comunque percepita come accollo). «È iniziata un’era di pensiero a somma zero». Nel migliore dei casi, vien da dire.

Il corvo dell’inflazione

Costantemente posposto, con improvvisi sollievi regalati da numeri invece insperabilmente in crescita, il baratro della super inflazione volteggia come un corvo che spacca le orecchie mentre il cielo sembra sempre lì per diventare scuro.

Basterebbe leggere i soli titoli di uno dei numeri di “Scenari” – inserto di questo giornale che ben conoscete – per capire come il quadro geopolitico complessivo non sia mai stato così furibondo, con il pianeta striato da strategie tra macro-aree (se non interi continenti) completamente inedite.

Sfilate maschili

Dentro questo stadio di evoluzione che toglie il respiro, l’importanza delle sfilate maschili appena concluse a Milano e Parigi potrebbe ragionevolmente risultare risibile (fatta salva la crescita dei milionari nel mondo, prevista in aumento del 100 per cento a breve, e le modalità di comportamento totalmente non euclidee della nuova specie under 25/30 anni).

Eppure quello che è emerso è un filo rosso-pallido molto evidente: il manifestarsi di una fiera fragilità, come attitudine aperta da un lato all’esposizione a qualunque vento in arrivo, dall’altro alla preservazione di una zona di identità in formazione di fronte a questo futuro qui, e quindi necessariamente vicina all’infanzia (ora che è possibile, perché non più presente nelle cartelle stampa, si potrebbe pensare di citare pure il classico Agamben di “Infanzia e storia”).

Da Prada a Gucci

Quest’ultimo sentimento supera la stagione della fluidità per situarsi in una zona ancora più contemporanea, perché ormai assestata, almeno nei paesi ex occidentali. Tutto è esposto alla luce del giorno, con reale tranquillità. Trent’anni di pensiero sulla fine del patriarcato poi (vedi anche il lavoro di Giammei sempre su queste pagine) hanno reso tutto questo possibile, sicuramente in questa zona del comunicare, zona dove il mondo dell’”uomo” rappresenta sé stesso, attenzione, e quindi territorio politico per forza di cose.

È qui che va letta la placidità ancora più sezionata e angolare vista da Prada, sempre più Simons con vettorialità deliberata. E anche la scelta di Gucci di tornare per il momento alla tela bianca, ancora tutta da disegnare, con un momento di passaggio rapido, volutamente desaturato nei toni e volutamente formale. Ma anche l’estremo lusso rilassato visto da Fendi, con tanto di scialli avvolgenti fino ai piedi e felici “canotte” con una spallina sola, da sempre ottime per girare tra i club (finché saranno aperti).

Senza terrore

Incredibilmente pacificata, più ancora del solito, è stata la collezione di Giorgio Armani, come fossimo già dopo questo diluvio costantemente minacciato, e quindi più morbidi e fluenti, senza urgenze, senza più terrore. Armani sembrerebbe pure essere anche uno dei riferimenti dell’architettura molto ben controllata messa in piedi da Kim Jones per Dior, anch’essa dopo-uragano, qui reso ricordo (sotto forma di un impermeabile semitrasparente, mattone, straordinario): tagli strepitosi, bermuda e gonne estive, tutto nonostante l’antiquato suffisso di mercato (“autunno/inverno 2024”, non s’è visto sostanzialmente un reale coprifreddo da nessuna parte), trasparenze non cretine, maniche o mono-maniche aperte nei maglioni a configurare cappe portatili di nuovo tipo.

Da Vuitton prima di tutto s’è celebrato il lavoro di gruppo in totale continuità amorosa con la famiglia creata dal defunto Virgil Abloh (famiglia più che aperta: questa volta l’ospite è stato Colb Dillane/Kidsuper): al centro una casa, con tanto di cameretta e stanza dei giocattoli, vedi sopra. E una nonchalance nel vestire sostanzialmente qualunque cosa, basta che segni l’abbandono definitivo dei codici novecenteschi del business suit tuttora incredibilmente vivi, schifose pellacce difficili da far fuori.

La nudità dell’ignoto

In tutto questo, a purificare fino in fondo gli animi, ci ha pensato JW Anderson, sia per la label che porta il suo nome (vista a Milano) che come deus di Loewe (visto a Parigi).

Qui la nudità che si espone all’ignoto è dichiarata, sotto forma di “attitudine riduzionista”: si va in calzoncini di raso, o para-slip decorati indossati con tranquillità estrema, si gioca con le proporzioni delle maniche lunghissime di giacche e capispalla fino a creare sculture viventi (dalle quali spuntano le gambe nude, c’è un “fuori” nuovo da affrontare), ci si protegge con cuscino sul petto – torna la cameretta – e si può andare in giro anche con cose in rame e acciaio oppure quasi come teletubbies di peluches, perché non si ha proprio nulla da perdere ma solo da guadagnare: la gioia della libertà, strameritata.

Attenzione: questa è solo una porzione di ciò che costituisce il vestire maschile: basti pensare all’universo del vestire “activo” e alla sua galassia polverizzata di specifici marchi e collaborazioni di ogni tipo. Ma mai come ora – e lo dimostra l’enfasi con la quale è stata vissuta la stagione, guest di ogni genere in primis – l’esposizione libera di questa tranquilla mancanza di paura (nemmeno così fragile, a pensarci) risuona negli “Scenari” del presente come l’unica attitudine possibile. La dominazione – e il pazzesco contenuto di innovazione – dello sportwear anche di lusso estremo sono state finora egemoni. C’era e c’è però una componente militaresca al suo interno. È quest’ultima che va sradicata, e subito.

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