Il rifiuto secondo del Toro: l’eterno dolore di Frankestein

Aspettando di rabbrividire di fronte all’orrore della guerra sugli schermi di Venezia 82 con film come The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania, che testimonia (con un audio originale fornito dai volontari della Mezzaluna rossa) lo struggente grido di aiuto di una bambina palestinese di cinque anni intrappolata in una macchina a seguito di un attacco dell’esercito israeliano a Gaza City, o A House of Dynamite di Kathryn Bigelow che mette gli Stati Uniti di fronte a una minaccia atomica sconosciuta, il primo mostro del Festival è Frankenstein, il mitologico prometeo moderno sicuramente più innocuo di tanti capi di Stato. In concorso, il kolossal di Guillermo del Toro (Leone d’oro per La forma dell’acqua nel 2017) è un'opera che il regista messicano insegue da oltre trent’anni, scontrandosi con i rifiuti degli studios. Ci volevano i 120 milioni di budget sfornati dalla potente Netflix in cerca di prestigio e di legittimità con l’ingaggio di grandi autori come Martin Scorsese, Jane Campion, Alfonso Cuaron, Paolo Sorrentino o Noah Baumbach. Alcuni film di questi registi sono magnifici e sicuramente avrebbero potuto brillare di più sul grande schermo piuttosto che sul televisore di casa. Anche se è prevista un'uscita in sala limitata a ottobre, il sontuoso Frankenstein è sicuramente uno di questi, perché il film di del Toro è una festa per gli occhi e per il cuore. Ma attenzione, citando il capolavoro di John Hugues Breakfast club (1985) «quando cresci, il tuo cuore muore» e, contrariamente ad alcuni critici maldisposti che storcevano il naso dopo la proiezione stampa, per godere a pieno il film bisogna riconnettersi con la propria fanciullezza e lasciarsi andare a un fiaba crudele, un'avventura che ricorda un'altra ossessione di del Toro: Pinocchio, che il regista ha realizzato in animazione stop motion, sempre per Netflix, nel 2022. Un'altra creatura senza ricordi che non ha mai chiesto di esistere, e che sogna di essere un bambino e cerca disperatamente il babbo. La verità multipla di Guadagnino: “After the Hunt” parla di potere Il mostro Liberamente tratto dal classico di Mary Shelley, Frankenstein esplora i traumi tramandati dalla figura paterna, quella del creatore, il barone Victor Frankenstein (Oscar Isaac), vessato da un padre tiranno e anaffetivo (Charles Dance) che diventa inevitabilmente un padre padrone di un figlio troppo difettoso. Una creatura “partorita” nella follia di grandezza che è stata cucita a sua immagine con le carcasse dei soldati morti in guerra. Il “mostro” (Jacob Elordi) è una figura-specchio, l’emblema dell’estraneità, del sentirsi fuori posto, della ferita di chi viene rifiutato dal proprio stesso creatore. Un bambino rifiutato dal mondo con un cuore spezzato che cerca con rabbia l’amore del padre. Una figura cristica che vive il martirio dell’essere anche dannato perché in questa versione, che segue i punti di vista dello scienziato pazzo e della sua creatura, il mostro è immortale come un vampiro, un non morto senza ricordi che potrebbe anche essere il tragico replicante di Blade Runner. In questo omaggio ai freaks condito di spiritualità, horror barocco e melodramma, del Toro dà voce agli invisibili ed esplora il fragile confine tra umanità e mostruosità, perché se siamo da sempre affascinati e respinti da mostri come Frankenstein, è perché parlano a qualcosa dentro di noi con cui lottiamo. Un altro film che affronta le mostruosità dell’uomo e in particolare quelle del governo americano è lo straordinario Cover Up di Laura Poitras (Leone d’oro per Tutta la bellezza e il dolore nel 2022) e Mark Obenhaus. [Missing Caption][Missing Credit] Un presente opaco Presentato non si sa perché fuori concorso, il film è un viaggio per mezzo secolo di storia americana che punta il dito sul fallimento odierno del giornalismo investigativo. Il protagonista del film è uno dei più grandi giornalisti investigativi statunitensi, il premio Pulitzer Seymour Hersh che con le sue inchieste ha svelato crimini, segreti, coperture e trame degli apparati militari e dell'intelligence, dalla guerra del Vietnam ad Abu Ghraib. Un film necessario per raccontare un presente sempre più opaco. Mentre gli elicotteri sfrecciavano nel cielo del Lido di Venezia in vista dell’imminente manifestazione pro Palestina che ha riunito più di 4000 persone tra cui l’attrice Emanuela Fanelli, Michele Riondino, Tecla Insolia o il fumettista Zerocalcare, abbiamo avuto modo di parlare con la regista. «L'idea mi è venuta nel 2005 nel contesto della catastrofica guerra americana in Iraq di allora», racconta Poitras. «Il lavoro di Sy era una delle rare eccezioni che stava contrastando la narrazione attorno a quella guerra. Un impegno che non solo mostrava l'importanza del lavoro di Sy nel dire la verità, ma anche l'importanza del giornalismo investigativo per la società. Sentivo che c’era un fallimento del giornalismo, in particolare nei confronti di Bush. Quando ha dichiarato guerra al mondo musulmano i giornalisti semplicemente lo hanno assecondato, e nessuno si è chiesto perché cazzo stavamo facendo questa invasione». A Poitras abbiamo chiesto anche perché il giornalismo mainstream ha impiegato così tanto tempo ad affrontare il tema di Gaza: «È una delle grandi vergogne del nostro tempo. Non so come lo spiegheremo alle generazioni future. C'è una popolazione che viene affamata mentre noi siamo seduti qui a Venezia a bordo piscina. Il mio film parla proprio di questo, dell’insabbiamento delle notizie, i governi cercheranno sempre di sopprimere le informazioni, controllare la stampa e se permettiamo che accadano tragedie come quelle di Gaza vuol dire che ormai il giornalismo è incapace di mettere in discussione il potere dei governi. Oltre 200 giornalisti sono stati assassinati a Gaza ed è incredibile che nessun organismo internazionale di stampa abbia preteso o protestato affinché ci siano corrispondenti sul campo per dirci cosa sta succedendo lì. Gli unici a darci notizie, rischiando la vita ogni giorno, sono i giornalisti palestinesi e il mondo non sta facendo nulla». Mentre sul boicottaggio degli attori Gerald Butler e Gal Gadot da parte del collettivo Venice 4 Palestine, la regista ha detto: «Non so cosa dire, ma penso che sia importante che una piattaforma internazionale come la Mostra del cinema di Venezia possa fare da eco a un gruppo di artisti e intellettuali che si sono uniti per ricordare al mondo le atrocità che stanno accadendo in questo momento a Gaza. Non possiamo ignorarlo se finisco in tempo le interviste, andrò alla manifestazione».