A differenza dell’albero di Natale, che è un’icona, il presepe è un’opera d’arte narrativa e “performativa”. Non a caso nasce per opera di Francesco d’Assisi come presepe vivente, con persone vere che lo mettono in scena. La sua qualità mobile, cangiante, narrativa prima che iconica, si riflette anche nei gesti di chi oggi “fa” il Presepe: il bambino si mette nella mangiatoia il 25 dicembre, il fiumiciattolo deve esserci, deve scorrere davvero, con acqua vera (a San Gregorio armeno come su Amazon vendono il kit-fiume con pompetta), il muschio si raccoglieva su qualche muro dell’infanzia; noialtri terroni, da piccoli, abbiamo sempre ricevuto una raccomandazione. Chi faceva il presepe doveva saper raccontare una storia per ogni personaggio: “Questo è Benino e dorme, è il pastore che non voleva lavorare, suona il flauto di canna e dorme, e mentre dorme sogna il presepe stesso, sogna lui stesso, e tutti gli altri: pastori bue asino Gesù Giuseppe Maria Magi. Se lo svegli, il presepe sparisce”.

L’epifania non è uno stato di cose, è un evento. L’etimo (greco: epi-faino) segnala la ripetizione di una manifestazione. La manifestazione si ripete non in modo identico – sarebbe semplice compulsione – ma in un modo ogni volta diverso, a seconda del tempo e della persona o gruppo di persone che la mettono in scena. Il sacro è una questione di apparizioni ritmiche.

Quanto più gesti e i simboli sono oscuri, ambigui, poco indagati, suscettibili di sparizione, quanto più sono potenti, perché a loro volta suscettibili, a dirla con empatia, di meraviglia.

Simbolo complesso

Il simbolo più oscuro e meno afferrabile dell’Epifania è la mirra.

Il racconto evangelico (Matteo) ci parla di un numero imprecisato di Magi. Che non erano re, come sosteneva il venerabile Beda, secoli dopo, ma erano astronomi-astrologi, sciamani: sapienti secondo il modello antico. I loro nomi arrivano dal protovangelo armeno dell’infanzia di Gesù: Gaspare, Melchiorre, Baldassarre. L’ultimo è tradizionalmente rappresentato con la pelle scura, quindi di origine africana, e di lui abbiamo sontuose rappresentazioni figurative in Jan Gossaert, in Albrecht Dürer, in Hieronymus Bosch, in Pieter Bruegel il vecchio, in tanti altri.

Il Vangelo di Matteo parla di tre doni: oro, incenso, mirra. Quest’ultima sarebbe stata offerta proprio dal “Black magus”. L’oro sarebbe il simbolo della regalità, l’incenso di divinità, la mirra di morte. Cosa ci faccia un simbolo di morte nel racconto e nell’iconografia della manifestazione di un bambino divino è il lato più complesso del simbolo.

La Commiphora myrrha è un albero spinoso, dall’aspetto intimidatorio. E nativo della penisola Arabica (Oman, Yemen) e dell’Africa (Gibuti, Etiopia, Somalia, Kenya nordorientale). Alla fine della stagione delle piogge viene raccolta la resina che fuoriesce dal tronco, naturalmente o attraverso tagli praticati nella corteccia. La mirra è un profumo molto caratteristico, è buon fissativo per altri profumi; avendo proprietà disinfettanti e cicatrizzanti veniva usata da egiziani ed ebrei per i procedimenti di imbalsamazione. La radice ebraica della parola è “m-r-r”, quindi “mor”, quella aramaica “mur”, quella araba “mor”. Il significato resta più o meno quello “molto amaro”. I filologi saprebbero spiegare la vicinanza con il termine ebraico “myr”, morte: l’assonanza è evidente anche in greco, latino, e italiano.

Secondo la narrazione evangelica (Marco) un calice contenente vino e mirra era stato offerto a Gesù durante la crocifissione (la mirra ha anche proprietà analgesiche), ma il Cristo l’aveva rifiutato. Secondo la tradizione cattolica e ortodossa Maria di Nazareth, Maria Maddalena, Maria di Cleofa stavano portando la mirra per la cura rituale del cadavere di Cristo. Ma trovarono la tomba vuota.

La mitologia

La mirra appare molto spesso in associazione con la morte anche in tradizioni precedenti e collaterali. Nelle Metamorfosi, Ovidio racconta del fanciullo guerriero e semidio Ati, dai capelli impregnati di mirra, che finisce ucciso da Perseo in una pozza di sangue, con il suo amante Licabas.

Il mito greco di Mirra è una parabola sfrenatamente simbolica di amore, morte, ambigua rinascita. Mirra, figlia del re di Cipro Cinira, è innamorata del padre per colpa di una maledizione di Afrodite. Una delle tante maledizioni di Afrodite. Riesce, grazie all’aiuto della nutrice Ippolita e con il favore del buio, a trascorrere con lui dodici notti. Finché Cinira non se ne accorge, e la insegue con la spada per ucciderla. Afrodite, impietosita, la trasforma nell’albero di mirra, la cui resina sarebbero le lacrime amare versate dalla ragazza. Dopo nove mesi la pianta si spacca, ne viene fuori Adone, che viene affidato, per un terzo dell’anno, a Persefone, moglie di Ade, dio dell’oltretomba.

La lettura del mito di Mirra fatta da Vittorio Alfieri, invece, è già tutta moderna, quasi proto-freudiana. Mirra è innamorata del padre, ma non consuma l’incesto, finisce per uccidersi lei per la vergogna di fronte al proprio sentimento: un sacrificio di fronte al tabù.

Tornando all’epifania: l’offerta della mirra sarebbe una prefigurazione della passione e morte di Cristo. Ma è una lettura che andrebbe rivista sulla base dell’idea di Sant’Agostino della triplicità dell’uomo. Secondo il vescovo di Ippona l’essere umano si compone di spirito, anima, corpo. Lo spirito è intelletto in senso pre-razionalistico, è tutt’uno col divino, si rivela solo nella preghiera, è eterno e incorruttibile. Oro. L’anima sono i moti emotivi, “sottili”, difficili da decifrare. Incenso. Il corpo è la materialità, la mortalità, la fatica. Mirra.

La dimensione erotica

Ma c’è un aspetto insolito che fa la differenza. La mirra viene citata varie volte dal Cantico dei Cantici, il libro più erotico dell’Antico Testamento. Siamo ovviamente in una fase molto precedente alla contrapposizione “spirito versus materia” come la intende la modernità: il carnale non è mai solo carnale, è anche diretta indicazione sapienziale, punta all’eterno. Così il Cantico: «L’amato mio è per me un sacchetto di mirra, passa la notte tra i miei seni» (1, 13); «Le sue guance sono come aiuole di balsamo dove crescono piante aromatiche, le sue labbra sono gigli che stillano fluida mirra» (5, 13); «Mi sono alzata per aprire al mio amato, e le mie mani stillavano mirra; fluiva mirra dalle mie dita, sulla maniglia del chiavistello» (5, 5).

In effetti esiste, più in oriente che in occidente, una linea di tradizione e interpretazione che attribuisce alla mirra un valore di simbolo sapienziale e taumaturgico. Per le comunità cristiane d’oriente la mirra era ed è attributo del Cristo come Sapiente medico. Lo attestano tra gli altri il Libro della Caverna dei Tesori, e lo racconta nel Milione Marco Polo che, nei sui viaggi verso la Cina, ha raccolto diverse tradizioni cristiane orientali.

È un aspetto eterodosso che la tradizione occidentale ha sempre sottolineato poco, o niente, quasi certamente per prendere le distanze dal paganesimo. Ma è un aspetto presente: la figura di Cristo è innanzitutto la figura di un esorcista e taumaturgo, che risana i corpi, rimette i peccati, toglie possessioni, ossessioni, vessazioni.

E come si vede, nella narrazione dell’Epifania i simboli, in particolare quelli meno frequentati manifestano oscillazioni imprevedibili. Sono appunto contenitori di narrazioni non concordi, non stereotipate, non riducibili a formule. Non sono stati di cose, sono eventi. E, anche, contenitori di meraviglie.

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