Quando leggerai queste righe sarò, mi auguro, altrove. Ma mentre le scrivo, cara lettrice, caro lettore, sono chiuso nella cameretta in cui ho dormito e giocato di ruolo al computer, consumato romanzi e bilanciato equazioni, ripassato monologhi di recite e ascoltato i System of a Down per tutta la mia infanzia e adolescenza, nonché la mia prima giovinezza, fino alla laurea.

Si trova a Mostacciano, al primo piano di un condominio di quelli col giardino interno, in cui il silenzio un po’ spaventoso della periferia dabbene è interrotto, verso mezzanotte, dall’improvviso ronzio di annaffiatoi automatici. Questo lo dico a memoria perché ovviamente, per colmo di sventura, il bonus del 110 per cento ha proprio ora manifestato impalcature metalliche e solerti operai mattinieri di fronte alla finestra da cui, sedicenne, fumavo lucky strike che credevo segrete leggendo Slam Dunk e Alessandro Baricco al ritmo degli irrigatori nelle fioriere.

Devo rimanere tra questa porta e questa serranda, entrambe chiuse, per sette giorni, perché qui a Roma, in visita a parenti e amiche per le vacanze, ho contratto il Covid. Non ho febbre, tosse, né raffreddore, avverto chiaro l’odore della stanza – l’odore mio? l’odore, voglio dire, di Alessandro Giammei fino ai ventitré anni? o è un odore nuovo; l’odore della mia assenza?.

Ad ogni modo, l’unico sintomo che presento è la giustificata paura di infettare i miei genitori uscendo mascherato dalla stanza per andare in bagno. Questa insignificante, eppure freudianamente gigantesca clausura di scappato di casa migrante trentatreenne mi fa pensare che il più illuminante discorso germinale del femminismo moderno rivendicò, per le donne, cose materiali; in primo luogo «una stanza tutta per sé». E allora forse, almeno fino a Virginia Woolf, la cameretta in cui adesso scrivo confinato è stata una cosa da maschi.

Viaggiare senza uscire

Devi sapere cara lettrice, caro lettore, che da quando ho smesso di dormire nella stanza da cui ti scrivo per abitarne altre, pagate coi miei soldi, ho dovuto cominciare a pensare ogni giorno, per studio e per lavoro (discrimine sottile se uno di mestiere fa lo studioso e appunto scrive, come Woolf auspicava potessero fare anche le donne), a Ludovico Ariosto.

Se segui questa rubrica l’avrai notato, lo menziono spesso. Ebbene, Ariosto è il capostipite di quelli che, in una stanza tutta per sé, non si sentono affatto prigionieri. Osip Mandelstam diceva di lui che era al contempo di qua e di là, Borges che camminava sulle strade di Ferrara e sulla superficie della luna simultaneamente e, forse per lo stesso motivo, tanti hanno sbagliato individuandolo in uno dei poeti dipinti da Raffaello sul muro della più bella cameretta di Roma, la stanza della segnatura.

Tra quei cinti di lauro, l’autore barbuto che si è creduto fosse Ariosto è quello che sta allo stesso tempo dentro all’affresco, coi piedi sul Parnaso dipinto, e fuori di esso, nella stanza reale in compagnia di chi lo guarda, col volto rivolto verso di noi e lo sguardo che ci scruta attraversando la parete.

È stato lui stesso a informarci, nella sardonica ironia delle sue Satire, che non aveva bisogno di uscire di casa per conoscere il mondo. Più comodamente, più al sicuro ed economicamente, preferiva volteggiare sulla carta delle mappe e dei libri aperti sul tavolo di una camera confortevole e sua, raggiungendo dal legno della propria sedia (la stessa che si può ancora vedere nella casa che comprò in contrada Mirasole) mete precluse al legno di una nave guidata da altri.

Uno scrittore che nel suo poema descrisse le terre conosciute, da Lipadusa al Catai, e addirittura spinse le sue donne e cavalieri fino ai cieli lunari, si dipingeva insomma sedentario e sornione, contento sovrano di una camera ammobiliata. Proprio lui, che faceva il diplomatico e il governatore gestendo papi e villani; che aveva scritto, come riporto nella firma automatica della mia email, l’endecasillabo «chi va lontan da la sua patria, vede».

Navigazioni da camera

Mi dirai cara lettrice, caro lettore, che, quasi due secoli prima dell’Orlando furioso, nel terzo capitolo della Vita nuova, già Dante, inebriato dalla dolcezza del primo saluto di Beatrice, risolveva di separarsi dalla gente per andare a pensare a lei in pace proprio «a lo solingo luogo d’una [sua] camera», e che in quella cameretta (secondo Marco Sant’Agata, grande dantista da poco scomparso, forse mai esistita materialmente) si consumò il perturbante sogno, degno d’un manga per adulti o di un’incisione di Blake, da cui il sommo trasse il sonetto che lo portò, circolando tra poeti, all’amicizia maschile forse più importante delle nostre Lettere: quella con Guido Cavalcanti.

Deve però essere stato il fantasma di Ariosto a ispirare l’ossessione per le stanze che visitò Giorgio de Chirico nel suo soggiorno militare a Ferrara, trascorso tra un ospedale psichiatrico, la casa di Govoni, e la cameretta delle meraviglie, piena di ninnoli e cineserie, di Filippo de Pisis. I suoi quadri di quegli anni sono cortocircuiti tra interno ed esterno, carte di navigazione e mobilio, volte celesti e parquet.

Lo storico dell’arte Ara Merjian ha parlato di una «volontaria claustrofilia» per tali interni ferraresi, genitori della serie dei “mobili della valle” – divani, poltrone, armadi abbandonati in paesaggi naturali a olio o tempera – ispirati un po’ dalla luna ariostesca, un po’ dalle valli di oggetti animati della Scacchiera davanti allo specchio dell’amico Massimo Bontempelli (lettura che consiglio a tutti i bambini che odiano stare dentro casa), un po’ dalle strade della Parigi dell’anteguerra, nelle mattine in cui erano autorizzati i traslochi.

L’esito più incantevole di questa fantasia dell’evasione immobile, dei viaggi tra quattro mura, è un quadro assai tardo, del 1968, intitolato Il ritorno di Ulisse, in cui de Chirico dipinge semplicemente il mare dentro alla camera. Un mare circoscritto, e perciò davvero sconfinato, navigato letteralmente dall’eroe del titolo su una scialuppa incerta.

Distratto dagli album di foto che mi ritraggono, dai libri (in gran parte da poco) che leggevo da ragazzo, dai giocattoli di cui non mi ricordavo più e dalle molte cose di altri che negli anni si sono accumulate in questa stanza mi sento così, nella mia quarantena: un naufrago modesto, incapace di perdersi.

Epistolari nella cameretta

Non che non basti, talvolta, una cameretta sola per perdersi sul serio. Certe camere con bestie e cavalli a dondolo di Leonora Carrington non hanno, pur essendo aperte, una via d’uscita, che siano dipinte nelle sue tele o evocate nei suoi racconti.

La salvezza sta forse banalmente negli altri, raggiungibili ora per me solo nelle stanze virtuali di Zoom o su altri schermi del telefono sempre sottomano.

Nel 1920, il poeta Vsevolod Ivanov e lo storico Mikhail Gershenzon si ritrovarono confinati ai due lati della medesima stanza in un sanatorio poco fuori Mosca. Erano troppo intelligenti, troppo entusiasti l’uno dell’altro, e si resero conto che la tentazione di chiacchierare tutto il tempo li avrebbe non solo distratti dalle rispettive ambizioni letterarie, ma addirittura estenuati allo stremo, ritardando la guarigione.

Decisero dunque di colmare la minima distanza che li separava con più disciplina, scrivendosi. Le dodici missive che si scambiarono senza mai lasciare la stanza sembrano un epistolario tra due poli estremi, eppure in profondo dialogo, della cultura occidentale.

D’altronde il gioco di riunirsi in una camera e scriversi come si fosse lontanissimi era in voga tra i letterati russi del modernismo, alla faccia di chi si inalbera quando i ragazzi guardano troppo i loro dispositivi di corrispondenza, come fosse una cosa nuova.

Perdersi tra quattro mura

Ebbene sì cara lettrice, caro lettore, ho finito per non spiegare come probabilmente la stanza tutta per sé sia una cosa da maschi perché solo ai maschi, a lungo, si è concepito di dover garantire uno spazio privato. Né ho parlato della curata cameretta che Bassani immaginò per Alberto Finzi-Contini, tanto più elegante di quella in cui mi trovo a scrivere, coi suoi oggetti tecnologici e gli arredi moderni.

Non ho scritto della stanza delle necessità di Harry Potter, in cui sfuggire alla condivisione intrusiva da college di Hogwarts, né del cielo in una stanza di Gino Paoli – né del fatto che “stanza” è il nome che si dà alle strofe di una poesia, da misurarsi in piedi e metri, da riempire di sé o di mondo.

Il fatto è che, soli e chiusi, ci si perde più di quanto non pensassi. E se avessi sedici anni, come mi pare di averli avuti a lungo, qui dentro, vorrei solo andare a scuola domattina.

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