Ho cominciato a indossare quotidianamente una cravatta (tipo divisa, tipo costume) all’università. Come chiunque abbia studiato alla Sapienza di Roma (un luogo letteralmente titanico, disegnato per farti sentire rasoterra qualunque sia la tua statura) ho dimenticato il mio numero di cellulare di allora ma ricordo ancora a memoria quello di matricola, senza cui non esistevo.

Conservo gelosamente i cedolini degli esami (quelli di carta, sì, giacché meno di dieci anni fa ancora si adoperavano, essendo il motto ufficiale della Sapienza un calzante, sardonico scherzo romanissimo: «Il futuro è passato, qui» – virgola mia) assieme ai documenti d’immigrazione negli Stati Uniti, in una cartella verde che ho sempre con me. Perché è identico il timore che mi rende preziosi entrambi gli incartamenti: il timore, tipico degli stranieri, di non poter contare sulla memoria di nessuno per identificarmi; di aver bisogno di certificati. Lo stesso timore animò appunto la mia decisione, all’università, di cominciare a indossare quotidianamente una cravatta.

Travestirsi da adulto

Come apparire scoglio in un inesausto flutto di migliaia (decine di migliaia, addirittura) di matricole? Come far capire a chi sedeva in cattedra che non passavo di là; che nell’italianistica volevo prendere cittadinanza? Che oltre a imparare la drammaturgia musicale e i lineamenti di glottologia, la grammatica storica e il Petrarca civile, i Fasti di Ovidio, i placiti cassinesi e il Gruppo 93, volevo imparare anche come insegnarli a mia volta?

Mi pareva che vestirmi da residente, cioè da letterato (invece che da studente di letteratura, cioè da ragazzino) fosse la soluzione. Ma come si vestono i letterati?

La generazione X che era passata con successo dal mio dipartimento, quando la trovavo a parlare in pubblico alla Biblioteca Nazionale, all’Esc Atelier di San Lorenzo o alla Casa delle Letterature, mi appariva, in quanto a guardaroba, eclettica e incerta, ondivaga come la mia.

Melania Mazzucco, dark e autorevole, con le scarpe corazzate. Andrea Cortellessa, monaco modernista, sempre monocromo e senza colletto, tutto lino. Laura Pugno, così più smorzata e domestica delle sue visionarie scritture. Gabriele Pedullà signorile ma piacione, Gilda Policastro chic ma semplice, Matteo Motolese un po’ Alberto Angela. Tommaso Giartosio era sempre in camicia, Emanuele Trevi sempre in maglietta.

Quello davvero vestito da letterato mi sembrava Alessandro Piperno, con la pipa e tutto – ma non valeva, perché lui si era laureato in letteratura francese, dunque a Villa Mirafiori.

Mi risolsi a rivolgere lo sguardo ai boomer, ai professori ordinari.

Professori e cravatte

A vent’anni, i professori nati nel primo dopoguerra non mi parevano anziani, ma adulti. Sinceramente disinteressati, intendo, a sembrare miei coetanei: felici di esserlo stati quando era davvero fico avere vent’anni – nell’età che d’altronde, come letterato, intendevo studiare.

Scelsi di farlo con la professoressa a cui volevo di più assomigliare, la carismatica novecentista e poetessa femminista Biancamaria Frabotta, chiarissima e sibillina, che però era appunto una professoressa: non potevo certo imitare la sua serena eleganza di abiti e bluse.

I maschi dal canto loro, salvo poche eccezioni tutte fuori dall’italianistica in senso stretto (il filologo romanzo Stefano Asperti, il comparatista Armando Gnisci), avevano in comune quel dato di colore, quell’accessorio cangiante: la cravatta, che prima d’allora avevo associato soltanto ad adulti nemici o asserviti, gente che non volevo diventare.

A differenza di quei personaggi però, i professori non indossavano la cravatta perché dovevano, né la sfoggiavano per elitismo di classe. I dioscuri baffuti allievi di Walter Binni, Amedeo Quondam e Giulio Ferroni, erano spicci e di sinistra – anche se il primo mi pareva ossessionato dall’antico regime e il secondo, a parte il leggendario conflitto con l’eminenza rossa Asor Rosa, era appena uscito chiaramente vittorioso da un dissing con Alessandro Baricco, che allora era un’icona progressista. Luca Serianni, dai vertici della sua grammatica autorità, esibiva uno spirito di servizio d’operosa borghesia, affabile, tipo Angela Merkel.

Le loro formalità non avevano niente a che fare con quelle di avvocati e guardie, e ricconi. Lo si capiva soprattutto dall’assortimento.

L’assortimento

Se la cravatta devi metterla per forza e non sei un personaggio pubblico, ti metti sempre la stessa, come Harry Potter. Come una delle Iene di Tarantino, un imbranato supereroe della Umbrella Academy, o un liceale di cartoni giapponesi e serie coreane. Magari neanche impari il nodo. Come Homer Simpson, incongruo colletto bianco, che in un episodio d’antan mostra a Bart come si agganciano gli uncinetti della sua unica orrenda cravatta pre-annodata, gialla e rosa pseudo-regimental, agli appositi occhielli della camicia da ufficio.

Se devi indossare una cravatta per più o meno tacite convenzioni professionali invece, magari metti su una rotazione di tre o quattro esemplari, in relazione biunivoca ad altrettanti completi – fa eccezione Fantozzi, cui lungo l’arco delle cinematiche avventure i costumisti hanno stretto al collo un ragguardevole spettro di marroni e grigi, da studiare.

Se sei ricco, infine, hai sempre una cravatta nuova, e significa poco.

Se però l’assortimento di cravatte a rotazione è sufficiente a consentirti di scegliere in base all’umore e all’occasione, o semplicemente di apparire leggermente diverso ogni giorno della settimana, quella lingua di stoffa sulla linea dei bottoni dichiara senz’altro che non sei contento delle mere necessità. O almeno che non consideri superflua l’apparenza.

Il problema dell’assortimento credibile ed espressivo, alfabeto di un’identità maschile sia convenzionale che creativa, è solo uno, ed è lo stesso dell’autorevolezza accademica: entrambi si costruiscono (scienze matematiche a parte) col tempo. Ma quando ero all’università è scomparso mio nonno, primo borghese della sua genealogia contadina, lasciandomi un grande cordoglio e un’eredità di cravatte collezionate nei decenni. Sono stato, dunque, avvantaggiato.

Istantanee di stoffa

Le cravatte professorali, come il vino, sono migliori se vintage – altrimenti, con quelle nuove che normalmente ci si può permettere, uno sembra un poliziotto in borghese. Se non le si eredita, bisogna insomma comprarle usate: mercato senza equivalenti, credo, nel guardaroba femminile.

Pochi accessori si conservano bene come le cravatte, senza taglia, le cui eventuali parti lise scompaiono tendenzialmente nel nodo – specie se si impara a replicare quelli più voluminosi, nell’inventario degli 85 matematicamente possibili.

Mi pare che nei negozi d’usato si manifestino due categorie di cravatte: sgraditi regali e collezioni di morti. E di queste seconde mi appassiono, da quando ho cominciato a espandere l’inventario di nonno. Perché in un buon negozio, dai nuovi arrivi si indovinano intere biografie: il periodo conformista (durevoli e sottili comasche senza marchio, un’unica Burberry vera), le crisi di mezz’età (ampie Versace anni Ottanta, intonse), la faccia tosta di fine carriera (fantasie figurative di seta, lampi di giallo).

Si distingue la cravatta del matrimonio, che sembra più nuova, e la preferita quotidiana, che sembra più vecchia e più di tutte racconta a chi apparteneva la collezione – quella di mio nonno, presa da Cenci a Roma, è di un blu sommamente sobrio ma agitato da una geometria di pallini irrequieti, bianco e arancio, ordinati e sorprendenti come era lui.

Scegliere tra le cravatte già appartenute a un altro è una cosa da vampiri e astrologi più che da collezionisti e risparmiatori.

Cravatta libera tutti

Quando non è un cappio, la cravatta è ciò che nei primi videogiochi dei Pokémon si chiamava escape rope: una fuga. Chi la indossa volentieri ha quasi certamente risolto eventuali complessi edipici e di Peter Pan, non affida la propria maschilità alla trasandatezza adolescenziale o ad affettazioni di manualità. Ma soprattutto, se ne possiede in numero sufficiente, può esprimere variamente sé stesso senza nemmeno disturbare le norme e le forme più rassicuranti e tradizionali dell’abbigliamento maschile.

La giusta cravatta è come un acrostico osceno in una poesia religiosa, una finestra sull’anima ben più dei favoleggiati occhi sempre uguali di chi la porta. Certifica come un cedolino la maschilità mentre le concede altrimenti femminili colori, forme, geometrie, in un circoscritto carnevale permanente: è un’interruzione regolare delle regole, più un’intersezione che un compromesso.

Una camicia o un gilet magenta o verde acido, con api o volti di medusa, stampe di dorate geometrie sovietiche o sgargianti amebe su sordi fondi elettrici son robe da maghi televisivi o archistar. Ma le stesse fantasie, se limitate alla cravatta, si possono indossare anche a una messa in Vaticano.

© Riproduzione riservata