Insegno da qualche anno un corso sull’avanguardia e il genere (nel senso di gender, non di genere letterario) e ogni volta, a metà semestre, chiedo alla classe di darmi qualche indicazione su argomenti e temi che gradirebbero trattare prima dell’esame. Di solito richiedono incursioni nell’opera di qualche icona globale al di là degli studi italiani, tipo Marina Abramović o Laurie Anderson, che io allegramente aggiungo al programma da bravo aspirante femminista cosmopolita.

La risposta più astuta e rivelatrice però mi è arrivata quando ho cominciato a lavorare in un’università per sole donne. Una studentessa assai brillante, laureanda in letterature comparate, ha alzato la mano per dire che avevamo fin lì approfondito solo autrici e artiste femmine o al limite, in lavori pittorici e letterari firmati da uomini, soggetti e personaggi comunque femminili. Se davvero dobbiamo capire “l’avanguardia e il genere,” mi disse, sarà il caso di iniziare a studiare anche i maschi e la maschilità a un certo punto. O il maschile non è forse un genere? Touché.

Questo episodio mi è tornato in mente quando Alessandro Barbero, rispondendo pochi giorni fa a un’intervista su La Stampa, ha parlato di «differenze strutturali tra uomo e donna», ipotizzando che la scarsa spavalderia (appunto «strutturale») di quest’ultima sia alla radice del suo intergenerazionale insuccesso nel corrente mondo lavorativo, che premia l’aggressività. Giornali e social media ne hanno fatto una questione di misoginia, riducendo quel che ha detto Barbero a (per dirla con Repubblica) «le sue parole sulle donne», o comunque a una conflittuale dialettica tra «lo storico Barbero e le donne» (così titolava il Corriere). Memore della mia astuta comparatista in erba al Bryn Mawr College mi interrogherei, piuttosto, su Barbero e gli uomini. Cosa ha detto lo storico Barbero di sé, di un’ipotetica essenza strutturale dei maschi?

Mighty Max e Odisseo

Crescere con una sorella è un’esperienza epistemologica cruciale che raccomando a tutti i maschi. La mia poi, Giorgia, tre anni più piccola di me, è un’interlocutrice sempre sorprendente, e non ha mai smesso di voler giocare con me. Tra le prime cose davvero esaltanti che abbiamo posseduto, dopo la fase delle scialbe forme colorate e dei pupazzoni vari, c’erano dei medaglioni di plastica che si aprivano a conchiglia rivelando strutture architettoniche abitate da minuscoli personaggi: il mio era Mighty Max, la sua Polly Pocket.

Per ognuno dei nostri microscopici omologhi disponevamo di tre o quattro diverse strutture, e amavamo ogni tanto invitarli l’uno nella struttura dell’altra. Ricordo però il mio imbarazzo. Tutti i medaglioni di mia sorella (la stella, il cuore, l’esagono) contenevano case, dimore in cui Mighty Max poteva essere accolto come ospite gradito. I miei invece (il serpente, il teschio, la tarantola) erano terrificanti labirinti ostili in cui ospitare Polly Pocket sarebbe stata per lei una punizione. Max non era mai a casa sua, sempre in trasferta a casa di qualche mostro o scienziato pazzo da sgominare o da cui sfuggire. Giorgia mi offrì (lo ricordo, ora, con commozione) di fare uno scambio, ma io la casa di Polly non la volevo, perché era da femmina, e Max, senza di lei, mi ci pareva solo un intruso.

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Non mi metto nemmeno a tradurre i nomi dei personaggi per notare che Max è un possente eroe mentre Polly è tascabile oltreché domestica. Il discorso dei giocattoli che, come merce carica di ideologia, diffondono sovrastrutture capitaliste di genere mettendo in mano al maschio attrezzi da lavoro e alla femmina cucchiarelle e pentolini è noto – o almeno dovrebbe esserlo. Quello che mi interessa è la struttura, nel senso proprio architettonico (ma forse non solo): perché la miniatura di plastica di mia sorella abitava in comode e graziose case ordinate mentre la mia doveva continuamente attraversare ripide scale orrorose, saltare trabocchetti, dimostrare qualcosa? Perché, da maschio, non dovrei rifiutare il modello di un Odisseo darwinista e tagliagole, sempre all’erta, mai a riposo, il cui valore si esprime solo nella pancia di un mostro?

È certo liberatorio rileggere (riscrivere) Omero attraverso le canoniche o immaginate avventure delle sue meravigliose donne, come fece Sandra Petrignani nel suo immortale debutto narrativo degli anni Ottanta, Navigazioni di Circe, o Margaret Atwood, più recentemente, nella Penelopiad (Madeline Miller neanche la cito). Ma sarebbe pure fantastico cantare epicamente un Odisseo finalmente a casa, che adoperi il suo multiforme ingegno per gestire Itaca e istruire navigatori, recuperare gli anni perduti con Telemaco, accogliere stranieri senza usare loro le scortesie e i tranelli in cui incappò nel lungo ritorno. Dargli, insomma, una struttura in cui abitare invece che solo una collezione di tremende conchiglie aggressive da Mighty Max.

Maschilità da camera

Il mio verso preferito di Petrarca è la vertiginosa allitterazione nel primo sonetto del suo Canzoniere, «di me medesmo meco mi vergogno». Un balbettio imbarazzato, una confessione di fragilità che inventa l’io moderno, il soggetto lirico d’occidente. L’unica cosa spavalda è la pubblica ammissione di un errore, la spacconata di scriverla in un volume ordinato e perfetto, pronto per l’eternità (ce l’abbiamo infatti ancora intatto, nella grafia da lui scelta, alla biblioteca vaticana).

Il mio verso preferito di Dante, da quando me l’ha spiegato Giulio Ferroni, è in Paradiso, nel passaggio dal cielo del Sole a quello di Marte, quando Dante si domanda se i beati non vedano l’ora di riavere il proprio corpo dopo il giudizio universale «forse non pur per loro, ma per le mamme». L’idea chiaramente è che senza corpo, pur in paradiso, non si può del tutto esprimere il proprio amore: non si può abbracciare, non si può accogliere. Questa anelata fisicità non erotica mi entusiasma. E d’altronde, sebbene Dante fosse certo uno spavaldo, non possiamo dimenticarci che leggerlo senza peccare di blasfemia significa sapere, in fondo, che tutte quelle sue pur fisicissime avventure (e svenimenti, e batticuori, e spaventi, e timidezze) le ha vissute nella sua camera. Come Ariosto, che infatti si vantava di vivere l’eroismo sulla carta di mappe e pagine di libri invece che sul legno delle barche.

Case da maschi

Ecco, mentre escogitiamo soluzioni strutturali per colmare l’ingiusto squilibrio materiale e simbolico che sostanzia (invece di esserne una conseguenza) la differenza tra uomini e donne agli occhi del capitale, potremmo anche riscoprire l’opzione di una spavalderia da camera, costruire una struttura abitabile per il mio povero Mighty Max. Se guardiamo al nostro cosiddetto canone letterario nazionale forse l’eroismo interiore e domestico di un Montale, di un Leopardi, ispira più virile commozione di quello spavaldo ed esplicitamente avventuroso, estroflesso, di un Pasolini o di un Foscolo, attraversatori di rischiose strutture pullulanti di sfide da prendere per le corna. E tuttavia addestriamo i maschi a corrispondere a strutture plasmanti francamente scomode, brutte, persino mostruose, premiandoli da piccoli quando non si vergognano e sono disgustati dagli abbracci e giustificandoli più tardi quando si comportano da aggressivi intrusi in qualsiasi spazio, come se il miglior uso del mondo fosse davvero la conquista e non la curatela.

Certo che ci sono differenze strutturali tra l’uomo e la donna, una volta che ci mettiamo d’accordo se intendiamo struttura in senso marxista o postmoderno (e vi risparmio la tiritera accademica). Ma quelle differenze rimarranno ingiuste e oppressive finché penseremo di colmarle allargando progressivamente la capienza dei correnti modelli bacati di successo e libertà. Visto che chiaramente quei modelli hanno prodotto indesiderabili scenari politici ed economici, non è auspicabile diffondere spavalderia e aggressività più equanimemente tra i generi: bisogna invece rifondare l’idea di uomo sulle strutture di fruttuosa insicurezza ed euforica accoglienza che già abbiamo. Giacché Polly, nell’antro del serpente o del teschio, non è meno in pericolo di Max, ma Max in una bella casa disegnata per lui starebbe, credo, comodissimo.

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