Il podio di cui ha raccontato Cose da maschi, struttura machista e priapica – che sia quello illuminato e con il leggio inclinato da cui insegna la storia dell’arte Roberto Longhi o l’isola solitaria da cui sembra parlare Volodymyr Zelensky, o ancora il piedistallo metaforico da cui viene chiesto di scendere al secchione Alessandro Giammei – mi ha portato a fare alcune considerazioni che hanno a che vedere con il sistema dell’arte, e in particolare con l’arte pubblica.

Un piedistallo per i borghesi di Calais

Sul piedistallo si è detto e scritto tantissimo. È una forma che conosciamo, che popola la maggior parte delle piazze delle nostre città. Sopra ci stanno eroi maschili e femminili, che si sono meritati – anche se non sempre in virtù delle loro azioni positive – una posizione rialzata rispetto a quella di noi comuni mortali. Idealizzati, stimati, tenuti in grandissima considerazione. Sicuramente da guardare dal basso verso l’alto. Se stanno lì, qualcosa devono aver fatto, qualche obiettivo devono averlo raggiunto, sia anche soltanto la pura affermazione data dallo stare più su rispetto agli altri.

Questo meccanismo di elevazione non quadra del tutto già ad Auguste Rodin, che nel momento in cui realizza il gruppo scultoreo Les Bourgeois de Calais tenta un voltafaccia al piedistallo. La faccenda va più o meno così. Siamo a fine Ottocento, e Rodin viene chiamato a rappresentare un episodio della Guerra dei cent’anni, per rendere omaggio all’eroismo dei borghesi che al termine di un duro assedio alla città decidono di consegnarsi al nemico in cambio della liberazione della stessa. I sei vengono ritratti con lunghe tuniche e cappio già posizionato attorno al collo, nel momento in cui lasciano Calais andando incontro alla morte. A Rodin piacerebbe collocare il gruppo scultoreo nella piazza cittadina, senza basamento, proprio per – sarà lui a dirlo qualche anno dopo – rendere il monumento familiare e far sentire vicino al pubblico quel sacrificio umano. Insomma, vuole che chi guarda sia allo stesso livello di quei sei, sia uno di loro. La proposta viene bocciata, ma si riesce a ottenere che il piedistallo sia minimo, un leggero rialzo e niente di più.

Andiamo avanti. Conosciamo tutti la portata rivoluzionaria che nel 1913 ha la Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp. Guardiamola però per quel che interessa a noi oggi. Sicuramente è un’opera che un po’ deride la scultura celebrativa. Al posto dell’eroe, sul piedistallo troviamo una ruota di bicicletta montata al contrario, un pezzo comune, preso da una bicicletta qualsiasi, un elemento che non ha nemmeno l’immobilità tipica della statua visto che può girare. E il basamento? C’è, ma privo della solidità piena e incontrastata che siamo abituati a riconoscergli: è un banalissimo e precario sgabello.

Potremmo anche accennare a Joseph Beuys e alla sua volontà di mettere sulla base del piedistallo l’uomo, o a Piero Manzoni e al suo piedistallo rovesciato a testa in giù, che regge ed espone il mondo intero facendoci vedere l’artista sempre più spostato verso una presa di responsabilità nei confronti del reale. Viene da chiedersi infatti se non stia mettendo in discussione il piedistallo da cui di solito l’artista stesso guarda la realtà, e se non stiano quindi cambiando i termini della questione.

La discesa definitiva dal piedistallo

È sicuramente Alberto Garutti a modificare del tutto la relazione che abbiamo con il piedistallo. Possiamo dire senza alcuna forzatura che la sua ricerca artistica tiene presente questo centro di senso: la necessità che l’artista, soprattutto nel momento in cui si trova a operare in contesti pubblici, impari a fare un passo indietro – che poi si rivelerà essere un notevole passo avanti – scendendo dal piedistallo che un po’ retoricamente il sistema dell’arte gli piazza sotto i piedi, e mettendosi al servizio della città.

È un concetto che porta avanti dagli anni Novanta. Sembra semplice, ma provate a pensare cosa comporta. Il piedistallo, quella presenza vagamente fallica e autorevole che abbiamo imparato a leggere e riconoscere su Cose da maschi, è anche una grande sicurezza. Proprio per l’artista, ci spiega Garutti, che si arroga la facoltà di stabilire cosa sia arte e cosa no, e di starsene abbarbicato, distante, chiuso in un sistema di autoreferenzialità, che parla dell’arte e spesso solo all’arte.

Cosa succede allora se l’artista scende dal piedistallo? Deve cambiare marcia ed esporsi, deve capire, guardare, osservare, aderire alla realtà e ai limiti che impone, mettendo in atto strategie progettuali nuove.

Spero non vi appaia come un approccio zuccheroso e melenso nei confronti del reale, perché non lo è. È un’attitudine complicata, critica, politica anche, che mette in discussione l’idea di opera d’arte nello spazio pubblico e di come in quel contesto venga presentata.

Un’opera manifesto

Facciamo un esempio concreto. Nel 1994 il sindaco di Peccioli invita Alberto Garutti a realizzare un’opera pubblica. Vengono fatti gli incontri istituzionali, e viene messo a disposizione un budget. Garutti comincia a muoversi nel paese. Sa che vuole fare un’opera che affondi le radici nel luogo: deve essere destinata ai cittadini, toccando la sensibilità delle persone, inserendosi nella vita vera del posto. Allo stesso tempo, è fondamentale che sia portatrice di un linguaggio artistico sofisticato, senza scadere in forme di populismo pedagogico.

L’artista prende confidenza con la storia del territorio, fa riunioni su riunioni in un bar al centro del paese, parla con gli abitanti, con il barista e con la figlia, con gli anziani. Non vuole essere considerato il milanese di turno che arriva con il macchinone, cala una scultura in piazza spendendo cifre astronomiche, e poi se ne va lasciando una sorta di alieno firmato. Si mette all’ascolto, e dopo qualche mese nasce l’idea del lavoro.

Scopre l’esistenza di un piccolo teatro, dove si facevano spettacoli e feste da ballo e dove generazioni si sono trovate la sera, hanno ballato e scherzato, si sono innamorate, svagate. È un edificio basso, che giace in stato di abbandono. Decide di recuperare in modo filologico il teatro, con la complicità degli abitanti: sistema le parti sfondate, cambia i serramenti, restaura la facciata. Alla fine dell’operazione, dell’artista non c’è alcuna traccia, tranne una, che diventerà dispositivo fondamentale e cifra stilistica di tutto il suo operare. È a terra, e si è liberata di qualsiasi ricordo del piedistallo: è un’iscrizione su una pietra che riporta la didascalia «Quest’opera è dedicata alle ragazze e ai ragazzi che in questo piccolo teatro si innamorarono».

Dopo Garutti

Quella di Peccioli è un’opera manifesto. A seguito di essa, sia la ricerca di Garutti che lo stesso linguaggio dell’arte saranno costretti a fare i conti con un seminale gesto, allo stesso tempo umilissimo e forte, di messa a disposizione della città. Cambieranno i nomi delle città, le opere, le proposte, i mondi paralleli immaginati, ma niente sarà più come prima, nemmeno quando l’artista stesso utilizzerà ancora il piedistallo – che assumerà la forma di una panchina magari, dove sedersi per guardar negli occhi un cane di cemento che non ha proprio niente di eroico, ma l’idea di piedistallo non sarà mai stata così lontana.

Mi piace pensare che l’immersione dell’artista nel mondo reale escluda la possibilità stessa di “cose da maschi” o “da femmine”, di categorie che isolano e spingono alla separazione in compartimenti. La sento una forza motrice, in grado di respirare le inquietudini delle comunità tutte, anticipando un’apertura totale di temperamento.

Ieri, prima di scrivere questo pezzo, ho telefonato ad Alberto Garutti. Volevo capire se ci fosse stato in questo suo pensiero un ripensamento, un cambiamento di rotta, una delusione. No. È ancora un’urgenza, un punto fermo, una necessità. Metodologica, poetica, linguistica. Mi è sembrato bellissimo. E ancora assolutamente radicale.

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