La galleria forse più chic di Manhattan, certo la più accogliente, non è una galleria. È un appartamento, un luminoso gigantesco loft su Broome street, a SoHo, cui si accede da uno di quei grandi ascensori che solo in America. L’ha aperto nel 2013 Laura Mattioli, storica dell’arte e curatrice di una straordinaria collezione moderna italiana i cui formidabili pezzi sono spesso esibiti in quella dimora al quarto piano in compagnia di altri, altrettanto strepitosi, scelti da chi idea la mostra annuale, quest’anno da Francesco Guzzetti, per il progetto Facing America intorno al mio pittore preferito: Mario Schifano.

Anche se, una volta dentro, non c’è quasi angolo in cui fermare lo sguardo senza che si posi su un capolavoro, si tratta davvero di una dimora: c’è una raffinata cucina, con tanto di isola modulare su cui sorbire il caffè (rigorosamente espresso), c’è un guardaroba per gli ospiti, un camino, divani. E funziona davvero come la dimora che è: un luogo pensato per presentarsi confortevole, ospitale, in cui l’arte si contempla (e si studia, e si riproduce perfino) al ritmo lento della domesticità appunto, in una inconsueta dimensione di confidenza. Si chiama CIMA, Center for Italian Modern Art, e, mentre scrivo queste righe, sto preparandomi ad andarci per parlare, prevedibilmente, di una cosa da maschi. Lo smalto.

Il pittore pop

Mario Schifano, il protagonista della mostra di quest’anno al CIMA, dovrebbe essere ancora più leggendario di quanto non sia. È stato, nella fichissima Roma di Fellini e Patty Pravo, il più fico di tutti. Ha prodotto film con Mick Jagger e Keith Richards, ha amato ed è stato riamato da Marianne Faithfull e Anita Pallemberg, ha inventato topoi del pop prima di Andy Warhol, ha barattato i suoi quadri con fuoristrada e cappotti che non ha poi mai guidato o indossato.

Nato in Libia, giustificava il conto astronomico che teneva aperto presso il più grande negozio di giocattoli di Roma ricordando che, da bambino, aveva avuto un solo balocco suo, finito spiaccicato sotto i cingoli di un carro armato. Il disco Dedicato a… della band prog-rock che si è inventato negli anni Sessanta, Le Stelle di Mario Schifano, è oggi tra i più rari e desiderati vinili italiani da collezionismo di tutti i tempi. Le opere del suo periodo d’oro, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, mettono Piazza del Popolo sulla mappa internazionale dell’avanguardia pittorica d’occidente nel passaggio tra astrazione e ritorno alla figura.

Quasi tutte quelle opere, che vanno da vividi monocromi e smussati rettangoli a dettagli d’insegne o coca-cole e clamorosi ingrandimenti dell’autoritratto di Leonardo da Vinci, sono composte della stessa sostanza: tele tese dal legno, spesso coperte di carta incollata e, come ultimo strato, la pittura più aggressivamente insolubile e industriale sul mercato, una scintillante vernice capace di abbracciare superfici anche impermeabili per ricoprirle di colore: lo smalto.

Lo smalto di Schifano, gocciolante dalle campiture lasciate ad asciugare su un lato o rarefatto in pennellate che evidentemente non tornarono a immergere le setole nella latta, vibra di una vita sua, autonoma. Non cede nulla ai quadri che pure forma, su cui è solo aggrappato. Resistendo all’assorbimento, alla mescolanza, a tutti i trucchi illusionistici della tempera e dell’olio, ci ricorda che una tela è sempre uno schermo, non una finestra, e, come una faccia senza connotati, può dirci qualcosa sopportando il gioco del trucco, del maquillage.

Facile dire che lo smalto è una vernice da carrozzeria e manicure, uno sfacciato clandestino postmoderno della storia dell’arte. La verità è che la stessa sostanza repellente e sorda aveva già conquistato, nella sua versione chimica commerciale da mercato di massa, alcuni tra i più nobili ingegni pittorici di Parigi al culmine del modernismo, incluso Picasso. La marca di smalto che finì allora negli atelier era stata pensata per ringhiere e cancelli borghesi, e si chiamava Ripolin.

Schifano, troppo fico per andare banalmente in ferramenta come un Franz Kline o un Jackson Pollock qualunque, si procurò quello smalto vintage, importandolo dalla Francia. Particolarmente coprente, mai diluito, il Ripolin di Schifano fu il protagonista di alcune delle più esaltanti lezioni universitarie che abbia mai seguito, tenute da Flavio Fergonzi alla Scuola Normale a Pisa: mattine intere a interrogare proiezioni di dettagli ingranditi a dismisura da grossi quadri che Schifano aveva coperto di una sola tinta, per capire, nel buio totale di un’aula cinquecentesca, quella che Deleuze e Guattari chiamarono la «vita inorganica» dello smalto.

Unghie da uomo

Cosa succede quando questa vetrosa vita inorganica, concepita per illuminare e proteggere come una pelle minerale la piatta carne viva del metallo, incontra il corpo, la vita biologica, la superficie umana? Si dice sempre che le unghie, come i capelli, siano morte, composte di cellule defunte. E tuttavia le unghie dei maschi, che la buona creanza vuole corte e dunque vicine ai nervi e al sangue delle estremità con cui sfioriamo l’altro da noi, sono sensibili, reattive, mangiate e tormentate, ben meno superflue e passive di peli eradicabili e chiome rasabili senza alcun dolore.

Lo smalto per unghie ha una storia chimica assai diversa da quella dello smalto pittorico, ma ha preso a imitarne il tono e la densità quando quella vernice ha cominciato a essere associata alle automobili. I colori metallizzati scelti da Apple per gli iPod dopo il superamento dell’iniziale bianco zen rispondevano al fascino sia del cosmetico appena applicato che della macchina nuova, in un cortocircuito tra i più tradizionali immaginari di genere del dopoguerra.

In una scena esilarante dell’altrimenti dimenticabile film L’uomo perfetto, del 2005, Riccardo Scamarcio impara a pittarsi le unghie da Francesca Inaudi, che ha il compito di trasformarlo nel più desiderabile maschio possibile («come Beckham!»). Già quindici anni fa insomma le unghie smaltate non erano proprie solo di maschilità da palcoscenico o rave, ma anche di maschilità domestiche, da primo appuntamento. Una questione di cura, di rifinitezza.

Oggi lo smalto ambigenere è di una tale serena giocosità da tutti i giorni che Fedez può lanciarne una linea chiaramente destinata ai più giovani, che tendono a essere i più ansiosi di aderire alla dicotomia “cose da maschi” vs. “cose da femmine” per non essere presi in giro. Certo, la mitologia originaria con cui quegli smaltini sono stati messi sul mercato è una storia di sfida ai benpensanti (ho messo lo smalto di mia moglie, mi hanno canzonato su Instagram, e allora sai che ti dico…). Ma la verità è che Fedez, così balsamicamente a suo agio nella propria tatuata pelle di idolo italofono senza troppi scrupoli normativi su cosa significhi essere un ragazzo (almeno negli ultimi anni), non è il rapper da nominare per primo quando si parla di smalti da maschio.

Bad Bunny, genio dello smalto

Faccio il verso a Boccaccio: per che tacciansi Fedez, Jared Leto ed Harry Styles, Jaden Smith, Achille Lauro e persino i BTS. Il più fico di tutti nel gioco dello smalto cosmetico (quasi fico quanto Schifano in quello dello smalto pittorico) è Bad Bunny, al secolo Benito Antonio Martínez Ocasio, un ventisettenne portoricano che domina il mondo della latin trap.

Se avete mai ascoltato il capolavoro I Like It di Cardi B, è lui quello che rappa in spagnolo col vocione. Se avete visto l’ultimo Fast and Furious avete visto anche le sue unghie. Bad Bunny se le dipinge nel video di Estamos Bien, in cui pure sono scanditi i tropi classici di una virilità urbana e latina (gli amici che vanno in spiaggia col macchinone, le ragazze di Miami in perizoma, eccetera). Se le dipinge anche su Instagram, in colori vibranti che il giorno dopo vanno esauriti dappertutto.

Su Twitter resta leggendario l’episodio in cui Bad Bunny, in tour in Spagna, fu buttato fuori da un salone di bellezza che rifiutava di fare manicure e smalto a un maschio. «What year is it? Fucking 1960?» domandò ai fan nel post. Sospetto ignorasse che, nel 1960, Mario Schifano rivelava la vita dello smalto sbugiardando la fine della pittura. Ma d’altronde c’è tempo fino a metà novembre per visitare la mostra al CIMA.

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