Quando ho cominciato a leggere la rubrica Cose da maschi qui su Domani, ho avuto come l’impressione che la tipologia di oggetti scelti si soffermasse o facesse quasi sempre solo eco a un mondo interiore. Molti articoli si sono concentrati sulla mascolinità come performance fisica, attitudinale, una corazza di prestazione e protezione; o come rituale per adombrare desideri impossibili proprio attraverso gesti e oggetti.

In effetti, lo scopo della newsletter che diffonde i pezzi mi è sempre apparso chiaro: comprendere il nostro tempo, cercando di svelare come gli oggetti plasmino identità ideali e diventino, talvolta, attributi rivelatori e destabilizzanti della maschilità. Ma essendo interessata a estendere il più possibile lo spettro della riflessione, mi sono chiesta se questi potessero anche tracciare le coordinate e registrare i segni di come la maschilità si manifesti all’interno dello spazio e attraverso esso, modificandolo profondamente.

Inaspettatamente, lo scrittore Georges Perec e il suo amore per il significato che circonda le cose, per tutto ciò che le nutre e instilliamo in loro, mi ha dato una mano nel sentirmi meno sola nell’insolubilità dei miei dubbi. Ho pensato a lungo a come la riflessione circa l’universo degli oggetti, durante la scrittura de Le cose, gli avesse dato l’impressione di trovarsi in un territorio melmoso, una specie di pantano in cui sguazzare.

Spazio e maschilità

Non posso fare a meno di trovare analogie con la mia esperienza personale, sia metaforicamente che praticamente, perché ho la sensazione di aver lottato a lungo contro l’ingombranza degli oggetti che affollano la casa della mia famiglia (e quindi, più che uno sguazzare, nel mio caso si è trattato di scavalcamenti e aggiramenti costanti). Non avevo mai capito però, prima di leggere Cose da Maschi, quanto tale affollamento fosse espressione di un’essenza specifica e situata: quella di una maschilità che non si è mai tradotta esclusivamente in una performatività corporea, bensì in una connotazione spaziale.

Una forma di maschilità forse ancora più subdola perché quasi inconsapevole, che si serve degli oggetti come una propaggine attraverso cui insinuarsi, sinistramente, nello spazio collettivo, per conquistarlo. D’altronde, anche lo spazio interno dell’architettura, scriveva Luigi Moretti, ha una propria “carica energetica” sensibilissima ai fatti e agli oggetti che lo influenzano, una carica le cui tracce rimangono leggibili a rimarcare quasi incidentalmente la loro presenza.

Etnografia di prolunghe e ciabatte

Riflettendoci, la cosa che rappresenta per me il paradigma di questa maschilità invadente – la cosa più da maschi di cui io abbia memoria, in cui riverbera la vocazione forzata al tecnicismo amatoriale proprio di ogni uomo tuttofare – è in apparenza innocua e discreta. Tuttavia, come tutto ciò che tendiamo a dare per scontato, a una più attenta osservazione essa rivela una natura simbolica ambiguamente sabotatoria. Si tratta della prolunga elettrica.

Cresciuta all’ombra di quello che Alessandro Giammei ha giustamente definito l’insopportabile imperativo di genere dell’”uomo di casa”, l’infestazione di prolunghe e ciabatte elettriche ha rappresentato per me l’antitesi della semplicità. Rovinose cadute, inquantificabili metri di fili ingarbugliati e srotolati in mezzo a salotti, stanze e giardino a rivendicare, per anni, la loro presenza antiestetica, hanno cristallizzato in me l’idea che le prolunghe non fossero altro che simulacri della funzionalità: il riflesso di quella narrazione dell’uomo tecnocrate e fatto da sé che oppone a un allestimento ponderato e pratico degli spazi (e delle prese di corrente) la soluzione univoca, indiscutibilmente maschile e autoprodotta, che finisce per rivelarsi una sofisticata forma di manspreading oggettuale.

Quella, per intenderci, che fa esclamare a Jean Milburn – la terapista sessuale di Sex Education – un rabbioso quanto liberatorio “YOU are EVERYWHERE!”, al culmine della frustrazione per ogni spicciolo e attrezzo da lavoro del compagno factotum sparso per casa e imposto sui suoi spazi, evidentemente non negoziabili.

Lividi e imprecazioni sibilate al vento a ogni capitombolo e presa staccata mi hanno convinta a riconoscere in questo infido e vestigiale oggetto, la ciabatta, l’emblema di una maschilità che definirei, simbolicamente e figurativamente, a “inciampo”: una maschilità anacronistica che è però anche un monito, sempre pronta com’è a ripresentarsi sul nostro percorso e nella quale si può ricadere, facendoci rallentare e deviare dalla traiettoria, ribadendo non troppo velatamente la propria infestante esistenza.

Una cosa da uomini

LaPresse/Claudio Furlan

Una ricerca delle allusioni nascoste nella prolunga elettrica può essere potenzialmente infinita, ma per rassicurarmi nella mia speranza di non essere totalmente fuori strada vorrei scomodare alcuni artisti dell’arte povera – un po’ dei tuttofare ante litteram dell’era industriale – nelle cui opere ho potuto riscontrare una connaturata propensione all’elettricità accoppiata a una manipolazione sperimentale dei materiali da costruzione.

Anche in questo caso, in cui l’esperienza artistica coincide con l’esperienza stessa del proprio vivere, l’uso di determinati materiali diviene mezzo per decifrare una percezione del mondo e raccontarci l’elettricità, appunto, come una “cosa da uomini”. La materia, per i poveristi, è fondamentale: l’entità in cui si cristallizzano flussi di energia e istanti di vita quotidiana, frammenti infinitesimali di tempo radicati in una processualità cosmica così come in una cultura specifica e antropologica – quella italiana e (guarda un po!) patriarcale della fine degli anni Sessanta.

Se la dimensione umana era per loro il metro di misura diretto e indiretto dell’opera d’arte, e l’adesione alla quotidianità il modo di porsi in relazione con la fluidità vitale, i neon di Mario Merz, le Luci di Gilberto Zorio e le opere di Marisa Merz, unica poverista donna, sembrano parlarci di universi valoriali e attitudini differenti. L’arte di Marisa in particolare, organica quanto lirica e sensibile, comunica col linguaggio di una quotidianità estranea all’uso di materiali elettrici. Ma io, avvezza a subire il cambio di lampadine come somma prova di superiorità, non me ne meraviglio affatto.

Legame ombelicale 

Non posso sottrarmi all’idea che questo armamentario elettrico di cui molti uomini si muniscono, generato dalla proliferazione di ciabatte multipresa, doppie spine e prolunghe per ottenere ciò che si vuole dove si vuole, non sia, in realtà, la realizzazione della massima libertà, bensì la sua lampante negazione. Tale groviglio non sembra pensato per semplificare davvero la vita, ma per mantenerci sempre legati a qualcos’altro, costringendoci a imporre la nostra (e la sua) presenza ingombrante sullo spazio di tutti.

A una più attenta analisi, non stupisce leggervi una metafora dell’attaccamento a una forma di maschilità egemone, autoriferita, e al contempo a un ruolo nello spazio domestico di cui si fa portavoce. Ci si può sentire adottati dalle cose? Possono queste ricreare connessioni perdute rendendoci invincibili o capaci di tutto – compreso avere la corrente dove normalmente non sarebbe prevista?

Tutto ciò mi ha fatto tornare alla mente un irrisolto problema di curatela e conservazione delle installazioni luminose dell’artista Dan Flavin. Mi ha fatto pensare a come il loro status di opera d’arte sia vincolato necessariamente a un sistema elettrico superato e a una desueta presa di corrente: una sorta di cordone ombelicale figurato che non può essere reciso, nonostante la sua obsolescenza. Tale e quale, in fondo, mi sembra questa cosa da maschi e il legame di sussistenza che unisce uomo e prolunga: evocativo, ancora una volta, di una scioccante simbiosi funzionale tra i due, suggellata dalla tossica convinzione di essere singola soluzione a ogni problema di natura pratica.

Fortunatamente, di questo maschile specifico, così come di ciabatte e prolunghe, il mondo ha sempre meno bisogno.

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