Alle scorse elezioni comunali di Roma, Giorgia Meloni è andata a votare nella scuola media in cui ho studiato a Mostacciano. Addirittura nella mia aula, a giudicare dalle foto apparse su vari giornali. Mi ha sorpreso lo sgomento di parenti e conoscenti («Ma che davvero abita qua da noi???»). Se lo chiedete a me, la matrice dello squadrismo, del fascismo (non quello storico, forse nemmeno quello consapevole od organizzato, ma quello invece casuale, che appare spontaneo, forse quello più autentico, di cui i primi tre si nutrono) ha a che fare con la scuola media, o almeno con la mia. È un’estetica, una poetica, una prossemica; quello che gli americani chiamano un mood. Un sistema di segni, un inventario di oggetti tra cui si cresce ignari, magari felici.

Il modello

Io alle medie sono stato assai infelice, come credo in realtà tutti, bulli e bullizzati – non serve forse specificare che ero della seconda squadra. Oltre a francese e inglese, algebra, analisi del periodo, e persino i primi rudimenti di latino, è alle medie che ho imparato davvero che ero maschio. E che dunque certi pantaloni, che prima mi parevano pantaloni qualunque, non potevo metterli più. Che non potevo camminare in un certo modo, alzare in un certo modo la mano, preferire la pallavolo al calcetto. Che dovevo tagliare i capelli e correggere la curva della mia bocca, il suono della mia risata, altrimenti all’entrata e all’uscita, o in cammino sulla breve strada verso casa, o in gita all’isola d’Elba, o al telefono per interposta persona, o alle festicciole di compleanno, gli altri maschi avrebbero continuato a dirmi cose di cui non afferravo il senso ma di cui capivo il tono, e che d’istinto sapevo di non voler provocare.

In quella scuola di Roma sud, il modello cui conformarci per apparire normali era chiaro a tutti: un ripetente della sezione G con la voce roca, il colletto alzato, che a dodici anni non poteva certo guidare un motorino e che tuttavia andava sempre, sempre in giro con un casco sottobraccio, anche a ricreazione. Un casco nero, in cui metteva cose come in una borsa ma che era evidentemente il contrario di una borsa. Un casco con su, disegnata con l’uni-posca, una croce celtica. Non sapevo ancora cosa fosse.

Cose da fasci

I primi maschi a cui ho voluto assomigliare per sentirmi come tutti, in salvo, erano senz’altro travestiti da fascisti. Quando sono andato al liceo (scientifico, perché era più da maschio appunto) nel limitrofo quartiere Torrino, ho scoperto che lo erano proprio, fascisti. O almeno dicevano di esserlo, lo scrivevano, paradossalmente, sui muri, salutavano quella che credevano essere la Mercedes del povero Francesco Totti, residente dietro scuola nostra, col braccio teso.

Da integrato non più bullizzato, prima di tessere amicizie di là dal confine di viale Europa coi suoi candidi monumenti mussoliniani, non sono mai arrivato a unirmi ai loro cori, a mettere faccetta nera come suoneria, a incidere anch’io boiachimolla sulla vernice gialla della fermata dell’autobus. Ho però chiesto a mia madre di comprarmi le loro cose: lo smanicato, le scarpe, lo zaino, vari parafernali (catene, un cappotto nero che indosso ancora, e ovviamente il casco, pur senza segni particolari, pur giustificato da un effettivo motorino).

Alla mia prima manifestazione, quando a quattordici anni ho scoperto la politica, sono fatalmente andato vestito da fascio, e le rappresentanti d’istituto di un liceo del centro me l’hanno fatto notare. Temevano che fossi lì per menare qualcuno, per boicottare la marcia. La rappresentante del mio d’istituto (la prima di sinistra dopo anni di PR delle discoteche pomeridiane) mi difese: tranquille, è solo un ragazzo dell’Eur.

Non voglio dire che le cose da fasci siano cose da maschi. Ben prima che Meloni ci ricordasse di essere una donna, l’immagine dell’estrema destra romana del terzo millennio aveva già trovato la sua più riconoscibile immortalità in un personaggio geniale di Caterina Guzzanti, Vichi di Casapound, il cui vate d’altronde cambiava pure sesso, da Ezra a Elsa Pound, in una esilarante routine.

Per una meritoria collana di poesia di Transeuropa oggi estinta apparve, nel 2010, un poemetto bellissimo di Anna Lamberti Bocconi, Canto di una ragazza fascista dei miei tempi, i cui epici endecasillabi raccontano il perturbante incontro di giovinezza, rabbia e radicalizzazione nera attraverso due punti di vista, entrambi femminili. E tuttavia, se mai ho rischiato di diventare fascista o, per lo meno, di assomigliare a un fascista è perché mi è capitato di voler essere (di voler apparire) un maschio normale, alternativo come tutti.

Ci sono libri di storia culturale bellissimi, chiarissimi su maschilità e fascismo, tra cui spicca Fascist Virilities di Barbara Spackman. La prima volta che assegnai Spackman in un corso, preparai la classe alla lettura proiettando il Foro italico su Google Maps in un’auletta di Princeton. Un mio brillante studente ora dottorando in Storia italiana e studi di genere a Columbia, che spero di ospitare in questa rubrica con un suo articolo, alzò la mano per chiedere come potesse una cultura tanto violentemente eteronormativa e machista rappresentare sé stessa attraverso quella fila di mastodontici culi maschili al vento, che ai suoi occhi apparivano tremendamente gay.

A parte condurmi a un saggio che avrei voluto aver letto al liceo, Fascinating Fascism di Susan Sontag, quella domanda mi fece pensare a una pratica dei giovanissimi affiliati di Casa Pound e Blocco Studentesco a Roma: la cosiddetta cinghiamattanza. Due o più maschi si tolgono la maglia, si sfilano la cintura e, possibilmente al suono di una canzone apposita degli ZetaZeroAlfa, si prendono a cinghiate sul torso nudo. I video di simili rituali, spesso girati in classe al cambio dell’ora, sono facili da far rimuovere da Facebook: non perché fascisti, ma perché l’algoritmo li riconosce come pericolosamente prossimi alla pornografia minorile.

L’elmo di Mambrino

Nudo nei suoi aspirazionali monumenti ancora in piedi, seminudo nella goliardia omoaffettiva che lo affratella ai neo-camerati, la varietà domestica del fascio che sarei potuto diventare è, normalmente, imbozzolata invece in un’armatura protettiva. Ridotto all’osso, l’inventario delle cose da fasci offre un’evidenza lampante al topos della fragilità maschile: gli anfibi, il bomber imbottito, il casco. Quest’ultimo è poi un veicolo di ulteriori segni, anche perché il casco è obbligatorio per tutti e bisogna perciò distinguerlo, come fece il mio infausto modello delle medie (o magari un suo fratello maggiore).

Una canzone di Niccolò Contessa (in arte I Cani) che, almeno a Roma, ha segnato un’epoca, diceva che i pariolini di diciott’anni «odiano tutte le guardie infami / animati da un generico, quanto autentico, fascismo / testimoniato, ad esempio, dagli adesivi sui caschi». Sospetto che i sancarlini (si chiamano ancora così?) di Milano parlino analoghi linguaggi materiali e visivi e che, come i pariolini più comuni di Roma, non abitino nel quartiere che dà loro l’epiteto (i ragazzi dei Parioli veri non chiamano sé stessi “pariolini”) ma in zone suburbane, più o meno benestanti, che dal fascismo si sentono al sicuro.

Non posso dire di essere cresciuto in un quartiere fascista. E tuttavia non ricordo alcun allarme per quel primo casco con la croce celtica, né per i gagliardetti su quelli dei miei compagni di liceo, né per le mie stesse ridicole scarpe da schieratello. D’altronde, se abiti all’ombra di monumenti che ancora riportano a caratteri cubitali citazioni dai discorsi di Mussolini, può davvero allarmarti un «dux» scritto con la bomboletta sul muretto?

Nel ventunesimo capitolo del romanzo che porta il suo nome, Don Chisciotte trova la bacinella incustodita di un barbiere e decide che si tratta del mitologico elmo di Mambrino, un oggetto magico che, nella storia della letteratura cavalleresca, ha protetto innumerevoli teste d’eroi. Dico una cosa che mi farà passar guai: malgrado Guccini e tutto, Chisciotte (il personaggio, non il romanzo) l’ho sempre trovato insopportabile, un prepotente che costringe il prossimo a subire, anche materialmente, le sue fantasie. Se uno si mette una scodella in testa può ben credere di indossare l’elmo leggendario che Rinaldo vince nell’Orlando innamorato, ma è sano fargli una pernacchia quando passa. Se poi si tratta di un ragazzo, bisogna togliergliela proprio dal capo quando è ora di andare a scuola. L’elmo non fa il cavaliere, come scopre Ferraù nel Furioso di Ariosto, né fa il fascista.

Ma, se è di matrici che parliamo, di archetipi e inneschi, io alle medie sarei stato più al sicuro, sospetto, senza casco. O almeno con altre opzioni, nel catalogo delle cose da maschi.

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