«Quale chimera è l’uomo?». Rammentando questa domanda di Pascal, lo storico della moda Richard Martin, curatore del Costume institute al Metropolitan di New York, rispose che «l’uomo contemporaneo è un atto di immaginazione legato all’abbigliamento, una fantasiosa creazione».

Verità vestimentaria

Il Maschile. Mente androgina Corpo eclettico è il titolo di una piccola mostra che ho curato nella Period room della Gucci garden galleria a Firenze nel gennaio 2019, inaugurata in occasione di Pitti Uomo.

Generato a partire dall’archivio Gucci e plasmato da molteplici suggestioni, il progetto ricapitolava in forma di display le parole chiave della perpetua rivoluzione che il marchio ha attuato nella moda maschile. Una rivoluzione costruita su un’architettura proteiforme, che tiene insieme eccentrismo e formalità, classicismo e temporalità, immediatezza e dichiarato erotismo.

Il pezzo che apre la mostra è una camicia rossa di seta, allacciata sulla schiena, dal lungo nastro a formare un fiocco, progettata da Alessandro Michele, attuale direttore creativo di Gucci, per la sua prima sfilata nel 2015: il ragazzo dai capelli lunghi la indossa infilata in pantaloni rilassati con una cintura di cuoio. Un manifesto indossabile di un modo nuovo di definire la mascolinità; un gesto che nella sua icastica semplicità dà forma vestimentaria ai corpi contemporanei, illuminando il menswear come terreno di sperimentazione.

Maschile come posa

Il Maschile: una parola inequivocabile riferita a una precisa sfera di pertinenza che ha a che fare con l’altrettanto precisa codificazione del genere. Ma “il maschile” indica anche un’attitudine, e proprio nel suo essere attitudine, diventa qualcosa di inafferrabile ed effimero: un gesto, una posa, una modalità di espressione in grado di trascendere il genere che dovrebbe identificare.

Invece che chiarire una posizione, il sottotitolo Mente androgina Corpo eclettico volutamente amplia e confonde il titolo, producendo uno scarto concettuale che lega al cervello una parola tendenzialmente collegata al corpo e, viceversa, dà sostanza fisica a un aggettivo mentale.

Il “cervello androgino” richiama un’espressione del poeta inglese Samuel Taylor Coleridge, che nel 1832 dichiara che «le grandi menti devono essere androgine», rivendicando la necessità, per una mente in grado di creare, di incorporare caratteristiche dell’uno e dell’altro sesso.

Il “corpo eclettico” si pone in dialogo con questa idea, e accorda un’indipendenza e una vis creativa anche al corpo stesso, svelandone l’abilità a essere fluido, agente attivo nell’aggiornamento dell’idea di mascolinità. Un gioco linguistico, quindi, che spariglia le carte e confonde i territori del materiale e dell’immateriale, aprendosi alla progettazione della moda maschile come territorio delle possibilità: di dichiarare, di rassicurare, di trasgredire.

L’inventario del closet

Nel 1949 sulla rivista Domus Carlo Mollino scrive: «In principio era la divinazione, come sono nati i costumi, i nidi, le tane o le conchiglie degli animali, così dell’uomo sono nate le cerimonie e le leggi, le case, gli abiti, le armi e ogni ordigno per comunicare, costruire, trasportarsi: prolungamenti di sé stesso per vivere e affermarsi e ancora gioire di questa affermazione». 

Queste parole, insieme a quelle di Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità di Beatriz Preciado, non ancora Paul, evocano una idea di ambiente maschile, con una materialità densa e dai colori profondi, in cui si dispongono abiti, oggetti e decori.

Il portacenere dal fondo morbido per adattarsi a ogni superficie, il frustino da cavallerizzo, i giochi da tavolo nelle belle custodie di cuoio con le iniziali in oro, i gemelli, i fermacravatte.

Mollino è prossimo alle atmosfere del closet, interpretando in chiave di genere le forme della spazialità architettonica. Il closet è l’ultimo interno: spazio oscuro nel cuore della casa dove si ripone tutto quello che occorre per costruire sé stessi, la propria apparenza, dove si dispongono gli abiti che si potranno indossare, ma anche i vestiti dismessi. È quel luogo oscuro dove puoi capire te stesso ed è l’opposto del luogo ordinato delle apparenze.

In dialogo complementare con la battuta «se vuoi cambiare un uomo cambia la sua casa» di Hugh Hefner, fondatore della rivista più influente per adulti Playboy, Preciado afferma: «Mi ha dato la possibilità di mettere alla prova, fuori da considerazioni morali o legali, una definizione architettonico-mediatica della pornografia, come meccanismo capace di produzione pubblica del privato e spettacolarizzazione della domesticità».

La mostra su Gucci

Nella mostra Il Maschile. Mente androgina Corpo eclettico una sequenza di abiti, accessori, oggetti, immagini e documenti disegna una mappa che tiene insieme immediatezza ed eccentricità, formalità ed erotismo.

Nell’unica stanza foderata da cabinet vetrati, le cui zampe sono impronta di un bastone da passeggio del Gucci ancorato all’estetica del gentiluomo che, dalla Toscana, guarda Londra e non è ancora parte importante del gruppo Kering, quello del film con Lady Gaga e Adam Driver, gli oggetti si organizzano in un catalogo di ossessioni e intenzioni.

La riflessione sulla mascolinità corre lungo il perimetro del corpo, continuamente rigenerata e affinata dal marchio a partire dagli anni Sessanta e poi attraverso lo sguardo dei direttori creativi. È Tom Ford, prima di Michele, in Gucci, a riprogettare i corpi che hanno attraversato gli anni Novanta.

Lui intende riprogettare il mondo e il modo di abitarlo. I suoi uomini, rappresentazione perfetta dell’estetica metrosexual, sono ritagliati in una idea di glamour lucente e oscura e si incontrano con donne glaciali e allo stesso tempo sexy, con cui scambiano i ruoli. Sono pavoni e gigolò. Uomini bistrati e donne con il trucco sfatto, ancora con l’odore della notte addosso. Nel suo mondo la vita è come l’arte, permeata dalla voglia di stupire. Il sesso è conoscenza e rottura dei conformismi.

Sylvie Fleury, artista con passato da modella, preleva le manette d’argento – evoluzione di quella metalleria Gucci che aveva popolato le case borghesi dagli anni Cinquanta, calata nelle atmosfere porno soft dei maneggi raccontati dalla scrittrice americana Pamela Moore – per usarle come invito alla sua personale presso Thaddaeus Ropac Gallery nel gennaio 2002.

A ben vedere, nella storia di Gucci il progetto della mascolinità si precisa e consapevolmente si nega in continuazione. Elegge delle ossessioni, che diventano poi le zone erogene attorno a cui si carica e problematizza la progettazione. E, infine, si traduce in materiali, in linee, in costruzioni che formano uno spazio in cui il corpo maschile è indubbio protagonista.

Un’area elettrica, carica, dove il corpo si espone e si cela, diventa cosa malleabile, addomesticata ed esplosiva. Il lavorio di maniera sulla scocca esterna – sia essa tessuto, pelle, epidermide, pagina – arriva così a riscrivere gli stilemi dell’identità, concentrandosi sulla superficie.

Convenzioni in frantumi

Sfruttando la tesatura tra corpo e mente, tra immagine e realtà fisica, questa tensione superficiale ha permesso a Gucci di dare corpo a un’idea di stile orchestrata attraverso oggetti maschili per definizione, ma anche attraverso sensazioni sospese, che si pongono sul crinale del sesso, forti della carica ambigua che aggiorna l’idea stessa di mascolinità, secondo le maniere fluide del vivere i generi che innervano le forme della cultura contemporanea.

Eppure, ancora sopravvive la convinzione tradizionale che il vestire maschile consista in un equilibrio di convenzioni, connesso all’idea di tradizione e di resistenza al cambiamento. Mentre Alessandro Michele compie operazioni che mettono in discussione questa fissità, negando i paradigmi tradizionali del vestire da uomo. Inseguendo l’inessenzialità stessa dell’attributo di genere.

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