Alcuni degli scatti del più celebre fotografo inglese della seconda guerra mondiale, John “Top” Topham, ci sono rimasti sconosciuti per decenni perché il War office, che adoperava le sue immagini dal fronte come strumento di propaganda, le censurò, trovandole inadeguate a rappresentare l’esercito britannico se non, addirittura, pericolose.

Tra queste foto perdute, ora digitalizzate in archivi online e piratate in vari gruppi Facebook, spicca una composizione surreale, lunare e formalmente bellissima. Sembra talmente un fotomontaggio assurdista o uno still da un film dei Monty Python che, a oggi, ha la sua pagina dedicata sul sito di fact-checking snopes.com, a certificarne l’autenticità storica.

È il ritratto di un poderoso cannone della contraerea; un cubo metallico dipinto con una fantasia mimetica sul fianco di una collina, da cui sporge la dritta canna di bombarda lunga quanto due persone sdraiate.

A manovrare l’ordigno, cinque aitanti soldati di sua maestà. Due hanno l’iconico elmetto allacciato sotto il mento, uno, di spalle, aziona i pistoni sul retro della macchina mentre gli altri la spingono per orientarla verso l’obiettivo, invisibile di là dall’inquadratura. Tutti, incredibilmente, indossano vistosi abiti da ballerine di can can, con gonne e sottane di fine fattura, evidentemente cuciti su misura per i loro corpi di giovani militari. Maneggiano quella fallica artiglieria pesante vestiti da donna.

L’arma come accessorio

Le foto di Topham sopravvissute che ritraggono soldati inglesi in drag sono almeno una decina. In esse, i ragazzi della greatest generation posano coi loro cappelloni da signora o sono còlti mentre si truccano a vicenda, si allacciano gli abiti lungo la schiena, si tirano su le calze.

Quella del cannone però è senz’altro il capolavoro, perché mischia due feticci e ci ricorda che sono, appunto, due cose, senza significato in sé pur essendo cariche di essenziali simbologie.

La foto appaia il metaforico teatro di guerra e quello vero e proprio, al suo interno, in cui, per intrattenersi a vicenda, i militari si travestivano per uno spettacolo di pantomima colmando l’assenza cruciale della vita di trincea; ricomponendo cioè la dualità di genere spezzata dalla leva di soli uomini – a casa, lo sappiamo, le loro mogli e sorelle indossavano per la prima volta non i loro abiti ma i loro ruoli.

Come l’ombrello e la macchina da cucire che si incontrano inaspettatamente sul tavolo operatorio immaginati dal Conte di Lautréamont, che ispirarono poi il surrealismo dei quadri di Max Ernst e delle canzoni di Franco Battiato, sul fianco della collina fotografata da Topham si consuma un inatteso appuntamento tra due oggetti che non sanno di aver a che fare l’uno con l’altro: il vestito femminile, rimasto addosso perché l’allarme aereo squilla proprio nel mezzo delle prove per la recita in costume, senza lasciar tempo di rimettersi la divisa, e l’arma da fuoco, col suo eretto fusto pronto a esplodere proiettili.

Che anche quest’ultima, come la giarrettiera o la cuffia di pizzo, sia un complemento di scena, un accessorio che fa di un attore altrimenti irriconoscibile un personaggio, ce lo confermano altre foto recentemente imperversanti sulle timeline di Twitter.

Si tratta delle fotografie natalizie che in America si usa produrre mettendo in posa la propria famiglia per poi inviarne copia a parenti, amici e amiche, in allegato agli auguri di stagione. Da qualche anno diventano ciclicamente virali le versioni di queste immagini tradizionali in cui famiglie conservatrici (leggi: trumpiane), tendenzialmente del sud degli Stati Uniti, si immortalano in autoscatto intorno al camino, con gli smaglianti sorrisi bianchissimi e i maglioni di lana rossi, imbracciando fucili, mitraglie e pistole. Roba grottesca.

A farci caso, molto significativamente, ogni membro della famiglia sfoggia la sua arma da fuoco come un accessorio a propria misura, declinato secondo logiche di genere: si riconosce il capofamiglia dall’inverosimile stazza della sua mitragliatrice da assalto – la cui legalità, in mancanza di un’apocalisse zombie, è davvero inspiegabile – mentre i figli esibiscono più modesti fuciloni già forse ascrivibili al reame della caccia (di bestie mitologiche? non so). Le mamme, le figlie, tendono a tenere in mano armi più corte, magari dal disegno più elegante, comunque meno patentemente priapiche.

Pur vivendo negli Stati Uniti non so immaginare l’esperienza di shopping di oggetti del genere, però mi domando se a quelle signore e ragazze non abbiano consigliato versioni più femminee del quintessenziale accessorio maschile che andavano a scegliere per la foto di natale: la pistola.

Pistole politiche e romantiche

Non è facile ridurre le pistole a una questione di stile, di performance. Rimangono oggetti politici: non solo negli Stati Uniti, dove la loro lasca regolamentazione anima quasi più dibattiti di quella (ora in grave pericolo) sull’aborto; ma anche in Italia, dove dal 21 dicembre scorso i civili possono acquistare cartucce parabellum prima destinate esclusivamente a polizia ed esercito.

D’altronde l’Italia è tra i più grandi esportatori di armi leggere, proprio quelle che si possono mettere in mano ai bambini soldato, e la sottile linea di proiettile tra legittima difesa e omicidio è stata un cruciale vessillo delle destre, da Genova 2001 al Far West di Voghera.

Il fascino per l’arma da fuoco tuttavia, e la sua promessa di dominante virilità, non è un’americanata recente, né un prodotto dell’autoritarismo machista dello stato di polizia figlio della guerra al terrore. Non sto nemmeno qui a citare i cowboys, anche se nel recente capolavoro western di Jane Campion, Il potere del cane, di pistole quasi non ce n’è, e l’immagine di Elvis bovaro con la canna puntata all’obiettivo in Stella di fuoco, triplicata in serigrafia da Warhol in uno dei suoi più ficcanti ritratti della maschilità bianca americana (Triple Elvis, 1963, in mostra a San Francisco), è forse il vertice della romanticizzazione delle pistole.

Mi pare più interessante tornare ancora indietro, agli angeli archibugieri dell’iconografia latino-americana del Diciassettesimo secolo, o alle imprese estensi che raffiguravano le leggendarie bombarde con cui i signori di Ferrara imposero il proprio dominio. O ancora alla fantasia rinascimentale del videogioco Assassin’s Creed II, in cui si riceve da Leonardo, nella Firenze medicea, un anacronistico congegno con cui freddare le guardie dei Borgia da lontano.

Il medievalismo del resto, immaginario maschile solo di recente ingentilito da un revival più inclusivo degli anni Ottanta e dalla rivendicazione del nerdismo femminile, è sempre stato orfano di pistole, sublimate in magiche palle di fuoco e catapulte varie.

Ricordo che in qualche versione o estensione di Dungeons and Dragons era possibile fare del proprio nano un artificiere corazzato, con fucili dorati alimentati dalla stregoneria, e in Game of Thrones l’artiglieria è in qualche modo prefigurata dall’altofuoco degli alchimisti e dalla trista invenzione (della serie, non dei romanzi) di quella balestra fuori scala con cui Cersei riesce incongruamente ad abbattere uno dei draghi.

La disciplina filologica di Tolkien rimane impressionante: nel Signore degli anelli ci sono i fuochi d’artificio, ma niente pistole d’accatto. Solo l’arco virilmente effeminato di Legolas, che poi è quello di Katniss in Hunger Games, nonché quello brandito, al lago, dal cognato panzone di Tony Soprano – che invece, patriarca inveterato, riceve un mitraglione tipo Tiger King per il compleanno, nello stesso episodio.

Un ordigno incivile

Credo che George Lucas abbia letto l’Orlando furioso, perché Obi-Wan Kenobi, sia nella prima che nella seconda trilogia di Guerre Stellari, disdegna con fastidio le pistole: armi da barbari, «so uncivilized».

Ben prima dei cavalieri Jedi fu Ariosto a stigmatizzare l’invenzione dell’archibugio, arma vigliacca e nefasta, come simbolo del declino della civiltà occidentale. Non poteva forse già pensare agli orrori che il fucile stava consentendo all’alba del colonialismo, né certo a quelli che la pistola consente oggi in ogni città, ma forzò la trama del suo poema per farci entrare la polvere da sparo, che nel contesto medievale non avrebbe dovuto avere luogo.

Il suo Orlando, dopo aver sgominato con cavalleresca valenza il re negromante che brandisce il micidiale schioppo, ha quasi imbarazzo a toccarla, quella proto-pistola: la getta in fondo al mare, maledicendola.

Il canto nono del Furioso ci insegna insomma, come l’episodio dei Sopranos in cui Tony ammazza di botte il cognato, che le pistole saranno anche cose da maschi, ma non da gentiluomini.

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