Ho scritto Viva il greco nel corso del 2020. Così ho reso quasi del tutto irrilevanti per me le limitazioni del lockdown; ho anche tenuto a bada una certa mia afflizione, che non dipendeva dall’epidemia, ma da altri giochi della sorte. Ho lavorato, potrei dire riassuntivamente, contro il dolore e contro la distruzione, rileggendo opere intere, meditando sulla lingua greca, traducendo passi di prosa e di poesia, e per la prima volta ho avuto la capacità di riconoscere, come può succedere quando si è davanti alla necessità di rendere conto delle proprie divagazioni agli altri in un momento di pericolo e come non mi era capitato neppure durante gli anni in cui ero studente all’università o professore al liceo, che il greco è la lingua del confronto.

L’arte delle differenze

Tutta la grande letteratura del periodo arcaico e classico, da Omero a Demostene e anche oltre, fa questo: intende e presenta la realtà comparativamente. Si tratta di un comparativismo vario, che ammette modalità sia aggressive sia conciliative, con tutte le gradazioni intermedie.

Hai la guerra, il dissidio, la competizione, l’odio, l’invidia, ma hai anche la pace, l’alleanza, l’amicizia, l’ospitalità, l’intesa amorosa. I vocaboli più tipici del greco vengono da questi ambiti: eros, philía, xenía, etc. La modalità conciliativa vuole prevalere. La mentalità greca – e la lingua, sia come lessico sia come sintassi – riconosce una condizione di conflitto iniziale in qualunque tipo di rapporto e mira a risolverla in una sintesi, che riporti giustizia e verità nello spazio sociale. Pensiamo al dialogo platonico, vertice del pensiero e dell’espressione, che arriva a mettere d’accordo punti di vista perfino antitetici; o a quell’opera di ricomposizione culturale, tanto più esemplare perché nata secoli dopo la fine della libertà greca, che sono le Vite parallele di Plutarco.

Ho scritto Viva il greco per dimostrare l’utilità del confronto, perché, ora come allora, sia come individui sia come società, abbiamo bisogno di reimparare l’arte delle differenze. Il greco ci insegna che capire gli altri e capire noi stessi sono operazioni concomitanti. Senza l’una non può esistere l’altra. L’io presuppone sempre un tu: troiano, persiano, macedone, romano, altro greco, amante, concorrente atletico o politico etc. E se il tu fisicamente manca, l’io lo ricava da sé, si sdoppia o raddoppia, e parla a sé stesso. Il senso di qualunque vita, la mia come la tua, sta nel rapporto.

Le differenze non vengono senza le somiglianze, ma – altro insegnamento fondamentale del greco – le somiglianze sono sempre il risultato di una costruzione, e dunque sono inevitabilmente cosa politica, frutto di negoziati, di patti, di progetti, di armonizzazioni. Non siamo simili agli altri semplicemente perché riteniamo di essere come loro; lo siamo piuttosto perché impariamo a vivere con loro: lo siamo dal momento in cui tutti, ciascuno nella sua diversità, ci impegniamo a fondare e a mantenere una società che ci rappresenti come “uguali”. Gli individui sono uguali solo in quanto membri di una collettività che voglia essere comunità.

Sapere senza settori

Mi sono innamorato del greco fin da bambino, come pure del latino, su cui qualche anno fa ho pubblicato Viva il latino, di cui questo Viva il greco è un ideale compagno. Parlando di latino, prendevo apertamente posizione contro le false ragioni dei nemici degli studi classici. Anzitutto scrissi Viva il latino per “legittima difesa”. Difesi i miei gusti e la mia storia, dove lo studio delle lingue antiche ha avuto e ha ancora un ruolo primario. Difesi, però, tutta una concezione del sapere, che non fa distinzione tra scienza e letteratura, ma attribuisce a ogni conoscenza la stessa dignità storica. Non ci sono, quando si studia, assoluti. Ci sono, invece, scoperte, illuminazioni, interpretazioni, che compongono assetti provvisori, più o meno duraturi, mai eterni, bensì sempre aperti a nuove configurazioni, secondo l’ampliarsi dei punti di vista e delle testimonianze materiali. Non esiste nessuna differenza ontologica o assiologica tra una radice verbale o un atomo della materia. L’una e l’altro si offrono parimenti all’osservazione e alla comprensione, e partecipano alla costruzione di discorsi generali, che solo impropriamente consideriamo discipline o settori a sé. Il sapere non ha settori: il sapere è solo lettura dei segni, qualunque questi siano – reperti testuali, residui fisici o mere simulazioni di dati di realtà.

Resta, per i contestatori, il problema dell’applicabilità di quel che conosciamo; il problema della tecnologia, in nome della quale molti – i soliti che dividono il sapere in settori – sono pronti a sostenere l’assoluta utilità della scienza e l’assoluta inutilità delle lettere, greco e latino in testa (ma mettiamoci pure musica, arte, filosofia etc.). La tecnologia, certo, serve. Senza quella le nostre vite avrebbero estensioni molto più brevi e sarebbero molto meno comode. Le nostre vite, però, non sono fatte solo di presente e di bisogni materiali. La tecnologia, in ogni caso, non è che un’infinitesimale parte della ricerca scientifica, che non ha altro scopo che sé stessa: la lettura dei segni, appunto. Se un utilizzo pratico, che porti beneficio alle persone, arriverà, tanto meglio. Intanto, con la ricerca, si raccolgono informazioni, si notano fatti, si attribuisce importanza ai dettagli, si spinge lo sguardo sull’inatteso, sul lontano, sull’indeterminato; si formulano domande.

Piacere di conoscere

C’è un’altra questione essenziale da tenere a mente quando si parla di istruzione. Chi domanda retoricamente perché ci si debba occupare ancora di lingue antiche, dimentica che esiste il diritto al piacere di conoscere, il piacere di comprendere le manifestazioni dell’intelligenza, che nella scrittura letteraria hanno rappresentazioni esemplari sin dalla prima antichità. L’educazione di un individuo – bambino o adulto – invoca questo tipo di piacere. Nessuna formazione potrà dirsi educativa a pieno titolo se non saprà avvenire “piacevolmente”. Insomma, per capire l’intelligenza bisogna farsi “intelligenti”: impegnare la memoria, imparare ad analizzare e a sintetizzare, riconoscere indizi, procedere un po’ come in un’investigazione poliziesca o in un esperimento magico; stupirsi, ammirare.

Il greco e il latino sono capacissimi di educare in questo modo, offrendo allo studente continue sfide e soddisfazioni, a cominciare dalle strutture della lingua. Non si trascuri, infatti, la bellezza dell’apprendimento grammaticale. Non dovrà essere fine a sé stesso, se non per gli specialisti accademici, ma già di per sé esso costituisce l’oggetto di uno stupendo campo d’indagine, che riguarda l’aspetto dei vocaboli, le variazioni dei suoni, le etimologie, la parentela tra le lingue, sia antiche sia moderne, la logica della frase.

L’apprendistato linguistico dovrà procedere di pari passo con quello retorico. Si studia sì l’aspetto dei vocaboli, ma si studierà anche il loro comportamento, e si osserverà che uno le usa in un modo, uno in un altro. Omero con quel vocabolo intende una cosa, Platone con quello stesso vocabolo ne intende un’altra. Per questo in Viva il greco, pur evitando di entrare in faccende strettamente grammaticali (morfologia, verbi etc.), mi sono soffermato su certi vocaboli, sostantivi o anche particelle. Si diventa, così, esperti di stile, che è sempre la rappresentazione di una mentalità e di una personalità o di tutta una cultura; e si diventa, così, sensibili al problema più importante che tocchi a noi esseri umani, qualunque sia l’oggetto di studio: come fabbrichiamo i significati.

Nessun vocabolo ha significato certo e definitivo. Il significato è sempre determinato dalla cooperazione di più elementi; né si esaurisce nella semplice occorrenza del vocabolo cui crediamo di vederlo associato o nella definizione dei dizionari. Il vero dizionario delle parole è la totalità della letteratura. Quel certo vocabolo ha una sua storia ricca e metamorfica, che nessuno è in grado di riassumere in qualche battuta. Tornerà e risuonerà con valenza accresciuta più avanti nello stesso testo o altrove, anche a secoli di distanza; rivelerà un’ironia che non avevamo scorto subito; si lega ad altre parole figurativamente, metaforicamente.

Metafore primarie

Le metafore! La letteratura è appunto scienza delle metafore. Per questo ci serve; voglio dire, serve ai popoli. E tanto più ci serve quando ci riporta all’invenzione delle prime grandi metafore del mondo in cui viviamo. Le metafore sono modelli sentimentali, intellettuali, comportamentali. Passano di libro in libro, di secolo in secolo, e non smettono di agire, trasformandosi senza sosta. La trasformazione assicura vita e continuità. Le metafore ci uniscono; creano una “diacronia simultanea” in cui antichità e modernità sono contemporanee. Nelle metafore è la memoria che ci rende società e organismi civili. Il tempo dello studio letterario, di cui quello del greco e del latino è parte fondativa, non è l’immediato presente; non è l’attualità (che, peraltro, del presente è appena la versione burocratica). Il presente va ben al di là del qui e ora, perché include lunghe durate, i cui inizi sfuggono ai distratti e pur tuttavia agiscono con emanazioni inarrestabili, come la luce delle stelle. Per questo è profondamente sbagliato paragonare gli scopi della letteratura a quelli della tecnologia, e mettere la letteratura in una posizione di svantaggio.

Ho scritto Viva il greco perché, come amo fare ogni volta che mi propongo di capire un sistema complesso, cercavo un’immagine iniziale, che mi rivelasse l’anima del greco; cercavo una metafora primaria. E l’ho trovata – e in quel momento di rivelazione mi parve di aver messo davvero gli occhi su un archetipo – nell’episodio dell’Iliade in cui Priamo, il re di Troia, va nella tenda del greco Achille a riprendersi il corpo del figlio Ettore, che Achille gli ha ucciso. Questi arcinemici. Priamo e Achille, contrapposti in tutto, per un momento si incontrano pacificamente. Non solo: Omero dice che si ammirano a vicenda, si rispecchiano l’uno nell’altro.

L’immagine iniziale che cercavo è questa vicinanza rispettosa, in cui gli odi decadono e le differenze si esaltano fuori di qualunque conflittualità, pur senza che l’antagonismo venga meno. Troia cadrà, ma lo spettacolo della caduta ci è risparmiato. Omero vuole che per noi la narrazione si concluda con quell’intimo, notturno incontro tra Priamo e Achille, un padre e un figlio.

L’ho quindi messa alla prova, la metafora primaria, e l’ho vista tornare in molta letteratura successiva, dove ha avuto la capacità di rinascere nella più ampia varietà di contesti (dalla storia alla lirica alla tragedia alla commedia all’oratoria), e ho capito che l’anima del greco non si è esaurita nella sua antica magnifica letteratura. Se l’ascoltiamo, lasceremo che penetri nella nostra, espandendola.


Nicola Gardini è autore del libro Viva il greco – Alla scoperta della lingua madre, edito da Garzanti

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