Gentile direttore,

sono rimasto sorpreso del lungo e livoroso sfogo di Tiziano Scarpa, ospitato sulle pagine di Domani. L’articolo dedicato alla celebrazione della grande storia della casa editrice Marsilio sembra ritrarre l’impotenza di un ceto intellettuale che alimenta una visione cupa del futuro, teorizzando l’affondamento di Venezia come Plinio descrisse la tragedia di Pompei convinto di narrarla e scansarla.

Detto questo, c’è un modesto fatto personale che mi riguarda. Non mi sono affatto vantato, come Scarpa mi attribuisce, di «avere pubblicato una cospicua quantità degli ottomila titoli di Marsilio».

Come si può agevolmente verificare dal testo integrale del mio intervento pubblicato sui miei profili social, intervento che Scarpa bolla, bontà sua, come «performance imperdibile», ho accennato con tono pacato e affettuoso a “una manciata” di titoli miei – sono dieci in tutto – per rievocare la mia esperienza diretta con quel laboratorio permanente di pensiero critico, cultura e sperimentazione che è ed è stata Marsilio nei suoi 60 anni di storia.

Un vanto, questo sì, per tutti noi veneziani. Per me, anche un luogo di amicizie profondissime, che ho voluto omaggiare: Gianni, Cesare, Luca, Emanuela, Giulia.

Scarpa mi accusa, subito dopo, di aver parlato di fiducia nel futuro, come se fosse un’eresia. Sono stato io a evocare il tema della decadenza demografica, il dramma di Venezia che sta per scendere al di sotto dei 50mila abitanti, e la sfida del Piano nazionale di ripresa e resilienza da cogliere per reagire allo spopolamento e al declino.

Queste le mie parole testuali pronunciate sul palco: «Ecco, la domanda che mi faccio: saremo in grado di raccogliere questa sfida straordinaria? Io dico di sì. Noi questa sfida la dobbiamo cogliere». Parole evidentemente insostenibili per Scarpa, che si immagina balzare in piedi e urlare dalla platea: «Non vi crediamo più!». Che coraggio, quale ardore!

Peccato che non lo abbia fatto e abbia preferito questo esercizio retorico e astioso, pessimista e distruttivo in tutte le sue parti. Forse ha letto nel mio discorso la sua impotenza? Che cosa ha fatto Scarpa per Venezia?

Una cosa mi preme, soprattutto, sottolineare, per rinfrescare la memoria a chi non sa o finge di dimenticarlo: io sono figlio di un venditore ambulante, ancorato mani e piedi nel ceto popolare della mia città. Io non rivendico la mia manciata di titoli e la mia cattedra universitaria. Io rivendico cinquant’anni di impegno per Venezia, la più antica città del futuro. Un impegno che continua e che continuerà, con buona pace degli inutili profeti di sciagura. “Preservare il passato, coltivare il futuro”.

Risponde Tiziano Scarpa

Caro Direttore,

è da incorniciare questa lettera del ministro per la Pubblica amministrazione. Mostra che tipi di persone ci governano, che mentalità hanno, quanto sono incapaci di discutere con il dissenso, denigrando le obiezioni a cui dovrebbero semmai rispondere: nel senso della responsabilità, oltre che della dialettica.

Non «alimento una visione cupa del futuro»: contribuisco, insieme ad altri cittadini e cittadine più impegnati e coraggiosi di me, a descrivere la rovina del presente, causata dalle scelte del recente passato, di cui anche il ministro è corresponsabile: come decisore governativo, come parlamentare ed eurodeputato, come accademico e autore di libri di politica economica e istituzionale. Mi dispiace dargli questa brutta notizia, ma del «ceto intellettuale» fa parte anche lui.

Chiede il ministro: «Che cosa ha fatto Scarpa per Venezia?». In questa domanda c’è tutta la sua idea di società, per cui contano solo certi ruoli, e il contributo degli altri al bene collettivo non vale nulla. Equivarrebbe a dire: “Lavoratori e lavoratrici, che cosa avete fatto voi per l’Italia?”.

La «fiducia nel futuro», in bocca a chi è concausa della catastrofe del presente, non è un’eresia: è ipocrisia, è una macabra menzogna. Non gli crediamo più.

Il mio intervento non è «livoroso»: è disperato. Come tanti veneziani e veneziane, sono uno dei precari abitativi e professionali appesi a un filo, veri moribondi civici. Il nostro non è uno «sfogo», è il rantolo degli agonizzanti. Ed è significativo che chi ci governa non se ne sia ancora accorto, e che definisca «livore» la nostra disperazione.

A teatro, sabato scorso, non ho gridato al ministro quel che pensavo perché non volevo rovinare la festa della casa editrice Marsilio, sarebbe stato fuori luogo. Così come continua a sembrarmi fuori luogo il modo in cui lui ha ostentato il suo coinvolgimento di autore.

I miei genitori avevano la quinta elementare, mio padre si presentava ogni mattina al porto di Venezia sperando nelle chiamate “a giornata”; io studiavo aprendo un cassetto e appoggiandoci un asse di legno sopra, è stata quella la mia scrivania di studente.

Il ministro rivendica le sue origini popolari: ma non basta ricordarle a parole, bisogna metterle in pratica nel presente, dando ascolto alle voci di chi a quelle classi svantaggiate appartiene tuttora. È un grave errore politico ridicolizzarle.

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