Adesso che iniziamo a intravedere la concreta possibilità di uscire dalla pandemia grazie ai vaccini, siamo tornati a parlare degli antivaccinisti. E come sempre accade quando affrontiamo una questione polarizzando gli schieramenti in campo, abbiamo ridotto una gamma quanto mai articolata di posizioni a due sole opzioni: pro oppure contro.

Non dovremmo tuttavia perdere la consapevolezza che le cose non stanno in questo modo. Chi esprime perplessità nei confronti dei vaccini non è necessariamente un negazionista del Covid-19, anzi; allo stesso modo, chi poi si vaccinerà non lo farà sempre con cieco entusiasmo nei confronti della scienza.

La semplicistica contrapposizione vaccino-sì/vaccino-no risulta però ingannevole anche per un’altra ragione. Essa tende infatti a nascondere ciò che hanno in comune i due fronti: condividono non solo fra loro ma anche con tutti noi il desiderio di riprendere le nostre vite precedenti, là dove le avevamo lasciate.

Sotto questo profilo vaccinisti e antivaccinisti sono compatti e omogenei in egual misura. Entrambi sono animati dal desiderio di lasciarci alle spalle le sempre più insopportabili misure di isolamento sociale in cui ci troviamo confinati. Del lockdown non ne possiamo più, a partire dalla parola stessa, sia perché usurpa senza meriti la nostra lingua, sia perché propone una versione quanto mai riduttiva di quel che stiamo vivendo.

Potremmo dire che la frangia più estrema degli antivaccinisti – i cosiddetti negazionisti – hanno semplicemente giocato d’anticipo: il virus non esiste, vogliamo continuare la nostra vita come siamo abituati a fare, non veniteci a raccontare fandonie.

Il culto dell’individuo

Quel che mette tutti d’accordo però non è tanto l’assuefazione abitudinaria al “come prima”, quanto piuttosto quel che ci sta dietro, ovvero il moderno culto dell’individuo. Tanto l’attesa salvifica di un vaccino contro il coronavirus, quanto il rifiuto della sua esistenza, e quindi del vaccino, attingono alla stessa matrice culturale che ha costruito e alimenta la contemporanea dittatura dell’io.

Ma questo monumento all’individuo che veneriamo in continuazione attraverso mille piccole azioni quotidiane – dalla cura del corpo alla ricerca del consenso sui social, dall’elusione furbesca dei nostri compiti lavorativi alla difesa dei diritti acquisiti – porta con sé una contraddizione, un’intrinseca debolezza che traspare qua e là quando cerchiamo qualcosa di solido che gli possa fare da basamento.

Uno dei paradossi più significativi del nostro tempo consiste in effetti proprio in questo: mentre l’individuo è diventato il nostro bene più prezioso, il principio che guida le nostre scelte e i nostri comportamenti, quando si tratta di dire chi o che cosa siamo ci scopriamo sguarniti di argomenti convincenti.

Un lungo logorio ha eroso i fondamenti dell’identità, e le conseguenze della modernità, come sostiene Giddens, ci consegnano un senso di smarrimento che stentiamo a superare. Per farvi fronte abbiamo intrapreso varie strategie, purtroppo sembrerebbe senza grandi risultati. Fra queste, una emerge con una certa insistenza, vale a dire il tentativo di dare un fondamento alla nostra identità incerta facendo riferimento al dna.

Dna come simbolo identitario

“È nel mio dna” significa che “sono fatto così”, che sto manifestando ciò che mi rende unico e dunque speciale. La forza di un legame così stretto fra me e il mio dna deriva dal fatto che propone una soluzione semplice e immediata a un problema di non facile soluzione e in continuo divenire come quello dell’identità.

La fortuna culturale di questa versione riduttiva del nostro rapporto con il dna risiede proprio nell’offrire una base stabile su cui poggiare noi stessi. Per di più, un punto di ancoraggio facilmente localizzabile poiché si riduce a una formula sintetica e rassicurante: io sono il mio dna. Quella che Lewontin ha definito in una sintesi quanto mai azzeccata «una molecola morta» – essendo, da sola, «incapace di fare alcunché» – si è dunque affermata progressivamente come il simbolo dell’identità, tanto a livello individuale quanto collettivo.

Certo la scienza ha contributo in grande misura a spingerci in questa direzione, suggerendo una visione deterministica del dna soprattutto, ma non solo, quando si è trovata a parlarne sul palcoscenico dei mass-media. Il premio Nobel Renato Dulbecco, per esempio, spiegava che, oltre a rivoluzionare la medicina, gli sviluppi della biologia molecolare avrebbero portato anche a una migliore e più profonda consapevolezza di cosa significhi «essere umano». James Watson, altro premio Nobel che divenne poi il coordinatore del progetto Genoma umano, fu ancora più schietto: «Ho speso la mia carriera cercando di ottenere una spiegazione chimica della vita, la spiegazione del perché noi siamo esseri umani e non scimmie. La ragione, naturalmente, è il nostro dna».

Come abbiamo visto, però, la responsabilità non riguarda solo la scienza. La relazione fra dna e identità viene infatti continuamente alimentata non solo dai ricercatori che studiano il genoma ma anche, anzi forse soprattutto, dai mass media e dall’interpretazione culturale che ne diamo. Così il dna, come osservano Nelkin e Lindee: «invece che un filamento di purine e pirimidine (…) è diventato l’equivalente secolare dell’anima umana».

Se però proviamo a rifletterci con un po’ di attenzione, non è difficile renderci conto che le cose non stanno propriamente in questo modo.

Le ragioni per cui noi non siamo il nostro dna, anche se ci piace tanto pensarlo, sono tante, ma qui vogliamo concentrarci in particolare su due.

In primo luogo, il concetto stesso di identità non è certo così semplice come verrebbe da credere. Tanto per cominciare, non si tratta di una condizione raggiunta una volta per sempre, bensì è frutto di un processo che deve continuamente combinare differenza e appartenenza, cambiamento e permanenza. L’identità rappresenta un punto d’equilibrio precario che si pone all’incrocio fra “sentirci unici” e “sentirci parte”, fra il percepirci come individui dotati di autonomia e specificità e il riconoscerci come componenti di un insieme da cui dipendiamo e con cui condividiamo tratti distintivi rispetto ad altri. Così, da un lato avere un’identità rappresenta un elemento costitutivo della soggettività; dall’altro, essere individui presuppone necessariamente una comunità di riferimento.

Il lavorio di incessante ricostruzione dell’identità deriva inoltre dalla necessità di riconoscerci come un’entità dotata di una certa stabilità, seppure all’interno di un flusso di piccoli e grandi cambiamenti che riguardano il nostro corpo, la nostra condizione, le nostre convinzioni. Ma, di nuovo, riusciamo a fronteggiare questa necessità grazie al nostro essere parte di una rete di relazioni, un’appartenenza che ci restituisce una parentela, una professione, un impegno civile, un’occasione di svago in cui identificarci.

In secondo luogo, lo stesso dna è un’entità collettiva, nonostante ci piaccia pensarla come il segno distintivo dell’individuo.

Un prodotto collettivo

Il dna è strutturalmente un prodotto collettivo, sia dal punto di vista prettamente fisiologico (per agire ha bisogno dell’ambiente cellulare, dell’intero organismo e dell’ambiente in cui vive), sia da quello della ricerca biomedica (le caratteristiche del dna del singolo diventano comprensibili solo se comparate a quelle dei dna di una popolazione di riferimento), sia da quello culturale che lo legge, lo interpreta e lo usa in vari modi.

Dire che il dna è una realtà eminentemente collettiva non significa sostenere che sia inutile o irrilevante. Si tratta solo di ricollocarlo in una prospettiva non deterministica e non individualistica, riconoscendo che la sua azione e il suo significato dipendono dalla sua appartenenza a un contesto.

Da questo derivano varie conseguenze. Per esempio, che non dovremmo avere paura del nostro dna, che le conoscenze su di noi che ne possiamo ricavare non sono quasi mai un verdetto definitivo – è importante sottolineare quel “quasi mai”, perché per alcuni di noi (anche se sono davvero pochi) il verdetto può risultare per molti aspetti definitivo – perché il dna non agisce da solo e come ciascuno di noi inter-agisce, cioè agisce insieme ad altri.

Fare la mappatura del dna non è leggere il nostro futuro nella sfera di cristallo. Possiamo sapere qualcosa di noi, ma non tutto. Né possiamo aspettarci che modificandolo a nostro piacimento potremo determinare il nostro benessere o il nostro successo, sia perché modificarlo è – almeno per ora – ancora molto, molto complicato, sia perché la nostra identità e il nostro percorso di vita non sono inscritti esclusivamente nel dna.

Federico Neresini è autore del libro Io e il mio dna – Abbiamo davvero un destino genetico?, edito da Il Mulino

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