Quest’estate, tutto mi fa paura. La calura anomala, la crisi politica, la guerra, le guerre; il vaiolo delle scimmie, la cronaca nera. Giorni fa, davanti a una geniale vignetta di Altan che esorta a godersi l’incertezza del futuro, perché quando diventerà certezza allora sì che saranno guai, ho riso più del dovuto – o meglio: ho sentito stridere, nella mia risata, una nota lievemente isterica. Sono nervosa, come un po’ tutti quanti, ultimamente. Mi fanno paura i ghiacciai che cedono, i letti dei fiumi secchi, la sete disperata dei cinghiali che cercano acqua a ogni costo; mi fanno paura gli incendi intorno a Roma, l’aria soffocante, spessa, come uno straccio sporco sopra la città. Mi fanno paura le notti madide, il vento che non c’è più, e poi altri incendi che devastano uliveti che ho conosciuto nelle lunghe estati della mia infanzia: che erano calde, ma sappiamo tutti che questo caldo è ben peggiore.

Non solo perché non concede tregue, ma anche perché sappiamo che non è soltanto caldo: è il segnale di una catastrofe già in atto.

Guardo i cani al guinzaglio, penso all’asfalto rovente sotto le loro zampe, bisogna farli camminare solo sui marciapiedi all’ombra; per fortuna esistono i platani, nei lunghi viali di città. Mi fa paura la crisi politica, sono preoccupata come di rado mi è successo; e sento che l’accumulo di pessime notizie di questi ultimi due anni e mezzo, pandemia, guerra, cataclismi, crisi, stringe d’assedio i nostri pensieri senza lasciare scampo: come il fuoco, come l’afa, come l’aria pesante di giorni tormentosi per chi, come la sottoscritta, ha un’inclinazione innata, ancorché non troppo prominente, all’ansia.

Smottamento emotivo

Una cosa curiosa è che in questo pullulare apocalittico di cupi presagi, in questo tripudio di corollari verificati della legge di Murphy, ho notato in me – ma anche nelle mie amiche e nei miei amici – un leggero eppur costante smottamento emotivo, che trovo piuttosto rivelatore.

Da un lato, il nostro black humour si affina in un cinismo sornione: il che avrà anche i suoi lati pericolosi, ma non posso impedirmi di pensare che l’umorismo sia un segno d’intelligenza (intelligenza sotto pressione), e dunque ne sono tutto sommato rassicurata.

Dall’altro, osservo un ingigantirsi del potere della nostalgia. Non mi stupisce: quando il presente è una terra inospitale, e il futuro ci appare come un paese estraneo di cui non riusciamo a decifrare nemmeno la segnaletica stradale, per non parlare delle regole, dei codici, del bon ton e persino del linguaggio, il passato, per un curioso effetto trompe-l’oeil innescato dall’astuzia inesausta della memoria, ci appare l’unico rifugio. Ci tranquillizza – anche se sappiamo che è solo per illusione ottica.

Ci fa sentire a casa, anche se la nostra casa è proprio nel presente in cui non ci piace abitare: il passato ha un’aria tanto più confortevole! E la nostalgia agisce proprio come quei sogni in cui il nostro inconscio fa rispuntare fuori gli esami di maturità: li abbiamo superati, no? E allora, che sarà mai quell’altro esame che ci attende domani, fra poche ore, ci rassicura un sogno solo all’apparenza angoscioso.

Mondo perduto

Nelle ultime settimane ho riletto dei romanzi di Bianca Pitzorno che ricordavo dagli anni di passaggio fra l’infanzia e la prima adolescenza – ho ritrovato, correndo con il dito sulle copertine con i titoli lucidi, in rilievo, un ricordo che credevo perduto, e ho avuto la percezione di un’innocenza vicinissima, ma persa per sempre; non esiste innocenza di seconda mano, mi sono dovuta costringere a ricordare.

Ho seguito, con deliziata, morbosa attenzione, le notizie dei concerti degli 883 tornati a far cantare – in formazione completa, addirittura, delle allora coriste Paola e Chiara Iezzi – i trentenni miei coetanei, che come me erano bambini quando tutte le radio gridavano che avevano ucciso l’uomo ragno, e che forse, come me all’epoca, nel verso che dice «loschi individui al bancone del bar», sentivano un’inspiegabile, ma anche per questo fascinosa, lezione alternativa («boschi di vita al bancone del bar»: non aveva senso, eppure per anni ho cantato così).

Mi sono sorpresa a ripensare alla fine degli anni Novanta, ai primi Duemila, come a uno splendido mondo perduto, un universo minuscolo e rassicurante come un paesaggio chiuso in una bolla di vetro, che a capovolgerlo si copre di pulviscolo glitterato.

So che non era così, so che la memoria sta cancellando mesi, anni, di tormentose sofferenze adolescenziali, ma anche macroscopiche ingiustizie, scelleratezze politiche, mostruosi errori di cui paghiamo le conseguenze adesso. Eppure l’illusione ottica è potente; e mentre guardo Max Pezzali e Mauro Repetto a San Siro, mi perdo in una fantasticheria in cui oggi è ancora ieri e non può fare paura.

Ma è il passato, come insegna il bellissimo libro dello storico David Lowenthal, la vera terra straniera. Non il futuro, ancora tutto da scrivere, e nemmeno il presente, che pure ci respinge.

È nel passato, che vigono altre leggi; leggi che noi non riusciamo più a comprendere, e che semplifichiamo glassando le contraddizioni nella melassa imprecisa della memoria.

Perdere l’innocenza

La tentazione di dare forma a un archetipo di innocenza rimodellando il passato prossimo, è una tendenza tipica dei momenti di crisi: i primi anni ’80, con l’Italia appena uscita dagli anni di piombo, diedero corpo alla Versilia sognata di Sapore di mare, un film che adoro per il vanzinismo vestito alla marinara e non ancora involgarito (a sua volta, oggi, oggetto di culto nostalgico), che applica la lente gentile della nostalgia agli anni ’60 di una Forte dei Marmi ricostruita sul litorale laziale.

Il film strugge pure chi quelle estati non le ha vissute, chi è arrivato troppo tardi anche per un sogno indulgente di cartapesta; eppure, conserva nel suo nucleo un lampo di disperazione che esplode nel finale – per il tempo che, malgrado ci inganniamo con la dolcezza del ricordo, malgrado terrestri e celesti nostalgie, ci tradirà comunque. Perché nostalgia, alla fin fine, è una parola ricalcata sul greco della medicina, coniata per l’appunto da un medico, a fine Seicento, per indicare uno stato morboso.

È una parola che parla di un dolore, proprio come sciatalgia, o nevralgia; e di un dolore probabilmente più irrimediabile ancora, perché alla fin fine, l’oggetto delle nostre nostalgie è irrecuperabile: è una versione di noi stessi, e del mondo, che non esiste più, semplicemente perché vivendo l’abbiamo erosa, perché l’abbiamo dissipata nella comprensione.

Perché abbiamo perso, vivendo, l’innocenza. La rassicurazione che la nostalgia ci offre è un piccolo (ma, ammettiamolo, delizioso) inganno; un effetto placebo che svanisce presto. Il dolore lì per lì sembra lenito, ma poi basta uno spiffero di pensiero logico, un buffetto della realtà, e stiamo peggio di prima. Ha un nome che ricalca quello della nevralgia, ma non ci sono antidolorifici che la intorpidiscano altrettanto bene.

E quindi, a quanto pare, non ci resta che disperare, in questa estate troppo calda in cui brucia pure la Versilia di Sapore di mare.

Forse, un buon modo per resistere alla pressione di questo tempo balzano, è smettere di puntellarsi in insostenibili ottimismi e affrontare a viso aperto il baratro, con tutto il senso dell’umorismo – umorismo nero, ça va sans dire – che per fortuna nessuno ci potrà mai censurare. E partecipare, ad esempio, come mi appresto a fare, a un festival intitolato nientemeno che alla Disperazione.

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