Da molti anni, trenta, ogni tanto Daria Bignardi va in carcere. Può essere a Napoli, può essere in Albania, o più vicino a casa. Non è un evento straordinario, è una delle cose che fa, come ogni tanto fa le presentazioni dei libri in posti irraggiungibili.

Vorrei poter dire che da parte mia le faccio domande intelligenti e considerazioni sui diritti civili, invece immancabilmente dico qualcosa come: «Che sbattimenti che ti fai».

Mi sa che l’ultima volta in prigione ci è andata nel caldo pieno di luglio. Queste imprese impegnative però non nascondono un gusto per la sofferenza, ma la quieta ricerca di qualcosa di fondamentale.

Il fatto che una persona possa, per competenze o attitudine, fare qualcosa – come questo libro, che poteva scriverlo solo lei – non rende necessariamente facile o divertente farlo. E infatti la genesi di Ogni prigione è un’isola, Mondadori Strade blu, è stata a lungo rimandata, si legge nella prima pagina, per una certa resistenza: «Scrivere un libro significa infilarsi dentro un’ossessione dalla quale non si esce mai, neanche mentre si dorme. E io non voglio stare in carcere per anni, non voglio starci di notte, pensare solo a quello. In carcere si sta male».

Spacchettare il mistero

Come possa, da queste premesse, nascere un libro in cui da lettori si sta bene, le cui pagine si abitano con agio, pur nell’impossibilità di sfuggire a domande essenziali ed esistenziali su sé stessi, sul proprio posto, sulle proprie posizioni riguardo all’ordine sociale, sulla libertà e su quello che ci rende umani, tutto questo è il mistero di questo libro.

Dal punto di vista della critica letteraria, il mistero si può spacchettare: parte memoir, parte narrazione di viaggio, e parte reportage narrativo fondato sulle persone e sui loro racconti, non semplicemente raccolti ma integrati in un senso generale che, anche se saldamente fondato su dati e realtà, non è mai cerebrale e non è giornalistico (a importanti lavori giornalistici sul carcere a volte fa riferimento, citiamo qui l’inchiesta di Nello Trocchia, Pestaggio di stato).

La chiave principale per aprire il mistero di questo libro è comprendere che è stato scritto, almeno figurativamente, in tutti questi trent’anni in cui Bignardi ha frequentato le carceri, le ha studiate ma soprattutto le ha vissute, ogni volta lasciando gli effetti personali e attraversando i cancelli blindati – qualcuno di più dopo la pandemia, per spezzare i corridoi.

Una materia conosciuta così profondamente, non solo studiata ma integrata alla propria sensibilità, dà origine al libro unico, al lavoro di una vita, per citare il titolo di Rachel Cusk sulla maternità. Questo è davvero il lavoro di una vita, perché le relazioni personali, le impressioni, le storie che racconta sono iniziate tanti anni fa, e il loro intreccio con la vita dell’autrice è inestricabile e non riproducibile.

Cresciuti insieme

Non esiste intervista sincronica che possa replicare la pratica diacronica di conoscersi nel tempo. Dal programma "Tempi moderni”, di Bignardi, che già ospitava un segmento con i detenuti di San Vittore, ai loro contributi sulla rivista da lei diretta, fino alle molte attività svolte nel settore chiamato Nave, i protagonisti di questo libro sono cresciuti e cambiati negli anni insieme all’autrice.

Il racconto li lascia e li ritrova pagine, capitoli dopo, come personaggi da sempre conosciuti. Tino Stefanini, allora detenuto a san Vittore, nel 2003 scriveva un articolo su Donna: «Mi portarono al carcere minorile in qualità di allievo, giusto per fare le conoscenze che sarebbero servite in seguito (…) infine il salto di qualità nella casa circondariale di San Vittore, che mi fece diventare un professore con conoscenze più approfondite» – il carcere è, soprattutto, una scuola di criminalità. La recidiva è al 70 per cento, ma si riduce al 20 per cento per chi dentro ha avuto accesso a un percorso di reinserimento lavorativo.

Ritroviamo Stefanini oggi, settant’anni: «Fumo come un pazzo e sono ancora vivo, magro, con tutti i capelli». Ha un «buon Dna», perché non sono molti ad aver passato quasi cinquant’anni in carcere e a godere ancora di buona salute, al contrario, «tra detenuti ed ex detenuti ci sono moltissime morti precoci, fuori e dentro, sia violente – suicidi, incidenti, sparatorie con la polizia, regolamenti di conti – che per malattia».

I dati compaiono solo dove servono davvero: «L’Italia nel 2022 ha avuto il maggior numero di suicidi di sempre: ottantacinque. In carcere ci si uccide venti volte più che fuori, e negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita anche cento agenti penitenziari».

Il paesaggio della violenza

La scrittura in questo libro usa le storie dei singoli, per il loro valore in sé, ma mai a titolo aneddotico. Sono sempre immerse in un ecosistema più grande che è il paesaggio della violenza; nel senso di vite violente, ma anche del metodo violento che, come società, utilizziamo contro queste persone.

Senza mai nominarlo, il libro chiama in causa il concetto filosofico della pena come pratica necessaria al vivere civile o come vendetta sociale. Senza mai nominarle a livello teorico, chiama in causa le disparità e il disagio sociale, le dipendenze, e le altre ragioni che portano non solo a delinquere, ma a finire in carcere per quei delitti – «i disgraziati che frequento io, piccoli spacciatori, tossicodipendenti, clandestini (…), in prigione mi sembra ci stiano solo a soffrire, far soffrire le loro famiglie e pesare sull’economia dello stato. E mi sembra sia questa la maggioranza della popolazione carceraria, mentre quelli davvero importanti in galera o non ci vanno o non sono tra coloro che rischiano il suicidio o le botte, e nemmeno la redenzione».

Ogni prigione è un’isola era stato anticipato da un articolo proprio su Finzioni, il mensile culturale di Domani a novembre 2022, un numero curato da Jonathan Bazzi e dedicato a Milano, in cui Bignardi aveva deciso di scrivere di San Vittore, della sua forma a panopticon e di quel giorno di inizio pandemia – il 9 marzo 2020 – in cui lì e in altre carceri italiani erano scoppiate delle rivolte.

Agenti e detenuti

A molti di noi è rimasta impressa quella di Santa Maria Capua Vetere, perché è stato uno dei pochi casi in cui sono emersi i video dei pestaggi, e questo ha permesso un’inchiesta. Già nell’articolo venivano riportati nomi e età delle vittime – tredici morti in totale cioè in tutta Italia – ma in questo libro c’è spazio anche per le loro storie: quanto tempo restava da scontare (a volte poche settimane), chi li attendeva, com’è finita.

Non è un libro ideologico – come lo sono alcuni saggi americani che sostengono l’abolizione delle carceri, incluso quello di Rachel Kushner, autrice anche del bellissimo romanzo Mars Room, Einaudi, – ma nemmeno un libro che fa solo riflettere sulle condizioni degli istituti penitenziari, tema su cui comunque si sofferma.

Vivono male i detenuti ma vivono male anche gli agenti, che spesso dormono in caserma e non hanno veri contatti con l’esterno, e soffrono il carcere senza aver commesso delitti. Nelle parole di un ex detenuto: «Se in carcere sta male il carcerato sta male anche la guardia. Gli stessi che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere a Bollate non lo avrebbero fatto».

Aggiunge la voce narrante: «Nessuno difende gli agenti meglio dei carcerati, nessuno li capisce – e, se sono bravi, li rispetta – come loro. Del resto vivono insieme».

Il carcere, dicono, è un argomento respingente. Tuttavia lo sono anche i manicomi, eppure sono molti i lettori che hanno amato L’arte di legare le persone, di Paolo Milone, un libro che parla di sofferenza psichica e costrizione fisica.

A volte si sottovaluta il pubblico. C’è una parte di noi che sa che non è possibile una vera rimozione, non di qualcosa di così grande e universale, e quella parte che ha voglia di sapere trova nutrimento in questo libro, lo divora, lo segue nei suoi momenti gravi ma anche nei numerosi momenti di luce; perché questo è tutt’altro che un libro cupo.

«Non è che le prigioni mi piacciano, al contrario. Ma dentro c’è la quintessenza della vita com’è: dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia».

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