Visto dall’alto il carcere di San Vittore è una stella a sei punte, ma è più simile a una stella marina con un tentacolo in meno che a quella di David.

Lo ha disegnato così l’ingegner Lucca, che morì tre anni dopo l’inizio dei lavori. Si era ispirato al panopticon – dal greco, il luogo dal quale si vede tutto – settecentesco, pensato dal giurista inglese Bentham per osservare e far sentire osservati tutti i prigionieri in ogni momento.

Quando fu inaugurato, da Umberto I, lì intorno era tutta campagna, mentre ora non siamo lontani dal centro di Milano. Dico siamo perché abito a cento passi dal carcere da più di vent’anni e lo frequento da allora.

La mattina del 9 marzo 2020 ero sotto le mura davanti al Terzo Raggio-Tentacolo, in piazzale Aquileia, mentre  alcuni detenuti salivano sul tetto urlando «libertà, libertà».

Dalle piccole finestre del quarto piano usciva fumo, a una avevano appeso un lenzuolo con sopra scritto INDULTO.

C’è un video del Corriere che mi mostra lì davanti, con un giaccone giallo, mentre dico quel che penso in quel momento.

La quintessenza della vita

Bazzico le prigioni da parecchio tempo e la prima è stata San Vittore.

Sono stata una sola volta a Bollate, che con quella di Opera è l’altra Casa di reclusione di Milano, una dozzina di volte al Don Bosco di Pisa, decine di volte a San Vittore. Prima ancora, per alcuni anni, avevo avuto una corrispondenza con un detenuto americano di nome Scotty, rinchiuso nel braccio della morte del carcere di Huntsville, in Texas, condannato per avere ucciso una persona durante una rapina a un distributore di benzina quando aveva diciassette anni. Nelle lettere Scotty mi scriveva che non era stato lui a sparare, ma la sua ragazza di allora. Erano entrambi tossicodipendenti, ai tempi della rapina.

La sua ultima lettera l’ho perduta, non so come mai, ma ricordo bene che scriveva che accettava la vita e la morte che gli erano toccate. Era diventato un cristiano qualcosa.

In carcere si trova la quintessenza della vita com’è: dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia, rimpianto di una felicità, bisogno di libertà. Ma non per questo è un buon posto per viverci, anzi, è un posto orribile, che ti lascia qualcosa di buono solo se ci entri ed esci al massimo dopo tre ore e da uomo libero. 

Ho iniziato a frequentare San Vittore quando era Casa circondariale e Istituto di pena, ovvero ci stavano sia i detenuti non giudicati che quelli con le condanne definitive. Collaboravo col giornale Il Due, che ora esiste solo online. Adesso che ci stanno solo detenuti in attesa di giudizio, al reparto della Nave, al quarto piano del Terzo Raggio, si scrive un giornale che si chiama L’Oblò, e ogni tanto partecipo alle riunioni di redazione. 

Ai tempi del Due di carta entravo in carcere ogni lunedì e per un anno, con un gruppo, ho girato un video sul tema settimanale di un mio programma intitolato Tempi Moderni che andava in onda il sabato pomeriggio.

«In via dei Filangieri gh’è na campana\Ogni volta che la sona l’è ona condana» recita una delle più note canzoni popolari milanesi, Porta Romana bella.

Noi entravamo da via Filangieri 2, lasciavamo cellulari e documenti, affrontavamo tutto il repertorio di metal detector, chiavi, cancelli, blindati, e andavamo al Terzo Raggio. Era il 1998. Salivamo al primo piano, in una stanzetta rettangolare con le sbarre, l’unica cosa che ti aspetti di trovare in carcere e trovi veramente, perché per il resto sul carcere girano un sacco di leggende, come le arance, che in realtà non si possono affatto portare ai detenuti, a meno che non siano sbucciate, divise in spicchi e messe nel pacco settimanale, che verrà accuratamente ispezionato. 

Lì ci aspettavano sette redattori detenuti che avevano dai trenta ai settant’anni. Prima chiacchieravamo un po’, ci aggiornavano sui problemi della settimana delle loro famiglie, perché in carcere i prigionieri si sentono molto in colpa rispetto ai parenti e ne parlano continuamente. Partecipare ai problemi dei famigliari glieli fa sentire vicini, e fa metter via per un momento i guai propri. Al 90 per cento si tratta di famiglie disgraziate: i detenuti spesso sono a loro volta figli di detenuti o di persone con problemi di indigenza o dipendenza dall’alcol o altre sostanze. Dunque le chiacchiere libere non erano di circostanza. Solo dopo le chiacchiere ci mettevamo a discutere dell’argomento della puntata che sarebbe andata in onda di lì a qualche giorno: unioni omosessuali, ambientalismo, alimentazione vegana, animalismo. Avevo ricevuto il permesso di riprendere i nostri incontri, montarli e mandarli in onda, tramite un direttore illuminato, Luigi Pagano, uno che sa, perché lo ha sperimentato lavorandoci quarant’anni, che più un carcere è aperto e meglio è per tutti. 

Sono rimasta in contatto con alcuni di loro. Uno, Tino Stefanini, che ai tempi di Renato Vallanzasca faceva il rapinatore, sul Due aveva scritto un articolo che chiarisce a cosa serva il carcere: «Ho iniziato a rubacchiare sui 14-15 anni e tante volte non volevo nulla della refurtiva, piccole somme o oggetti insignificanti. Poi arrivò il primo arresto, due paia di pantaloni appesi fuori da un negozio, più che altro una bravata, ma mi portarono al carcere minorile in qualità di allievo, giusto per fare le conoscenze che sarebbero servite in seguito; il secondo reato fu una tentata rapina in una gioielleria; il terzo una tentata rapina in un ufficio postale. Ormai ero uno “studente universitario”, e infine il salto di qualità nella Casa circondariale di San Vittore che mi fece diventare un professore con conoscenze più approfondite e amicizie fraterne: se avessero arrestato qualcuno di noi, chi rimaneva fuori si doveva impegnare per l’aiuto economico e, in modo particolare, per liberarlo. Avevo solo 24 anni e quell’amicizia fraterna, nonostante alcuni di noi siano morti, altri rovinati dal carcere con condanne trentennali o all’ergastolo, è rimasta. Siamo solo cambiati con la testa, non più calda ma disperata per gli anni di vita che abbiamo perso». 

Come ha ricordato di recente Luigi Manconi «la recidiva tra chi sconta la pena in una cella è circa del 69 per cento, mentre tra chi la sconta in misure alternative (detenzione domiciliare, lavori sociali, sanzioni pecuniarie) scende fino al 20 per cento. Questo mi porta a dire che il carcere è una macchina patogena, che produce malattia, depressione e morte».

Con un altro gruppo, qualche anno dopo, ho scritto una rubrica di televisione intitolata «Al Fresco» per il mensile Donna. Nessuno si intende di tv come i detenuti: la radio e la televisione sono l’unico contatto che hanno con l’esterno, oltre a quello sporadico coi parenti in visita, e più sporadico ancora con gli educatori e gli psicologi. Con gli agenti nella maggioranza dei casi non c’è un gran dialogo, ma nemmeno gli agenti, lavorando in carcere e spesso vivendo in caserma, di contatti con l’esterno ne hanno tanti.

Questa cosa della tv che è il loro unico rapporto quotidiano con l’esterno è molto importante per capire cosa è successo quel 9 marzo 2020.

Un primato italiano

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Non mi ricordo da chi ho sentito dire che chi fa televisione dovrebbe comunicare come se parlasse contemporaneamente a un addetto ai lavori, a un suo amico e a un ragazzino di dodici anni. Aggiungo: e anche come se stesse parlando a una persona chiusa in carcere o in ospedale o in una Rsa. 

Ora collaboro da parecchio con la Nave, il reparto di San Vittore fondato vent’anni fa da Luigi Pagano e Graziella Bertelli dove sono rinchiusi detenuti dipendenti da sostanze o da alcol, quelli che in carcere dovrebbero starci meno di tutti, perché sono malati. È un reparto dove i detenuti possono partecipare ad attività come  la redazione del giornale L’Oblò, il Coro, i corsi di educazioni alla legalità. È al quarto piano del Terzo Raggio ed è identico agli altri in quanto a  sovraffollamento, salvo che rispetto al disastro totale del Sesto Raggio era stato ristrutturato vent’anni fa, come il Quinto. Il Secondo e il Quarto Raggio sono inagibili, il Primo serve da ingresso. Il Terzo Raggio è comunque umido, sporco e squallido come gli altri, ma almeno ci sono le attività.

Nonostante questo, anche un ragazzo della Nave, Riccardo, l’estate scorsa si è tolto la vita. Quest’anno, e siamo ancora a novembre, i suicidi a San Vittore sono stati quattro, come nella Casa circondariale di Foggia: più che in ogni altro carcere italiano. L’Italia è il paese che quest’anno ha avuto il maggior numero di suicidi in carcere di sempre: 77, fin qui. In carcere ci si uccide venti volte più che fuori: e negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita ben cento agenti penitenziari.

Oggi sono stata al funerale di Gianluca, in zona San Siro. Anche lui era malato di dipendenza e stava alla Nave. Si è ucciso poco dopo esserne uscito.

Prima della pandemia io cantavo nel coro, perché le voci femminili nei cori servono sempre, persino quelle stonate come la mia.  

Col gruppo di cui faccio parte, L’Associazione Amici della Nave, ho fatto anche parecchi incontri pubblici con detenuti ed ex detenuti: nelle scuole, in Triennale, alla Caritas. 

Alcuni di loro sono usciti e uno, Manolo, è morto in un incidente stradale dopo mesi di coma. La maggior parte invece è ancora dentro, magari in altre carceri.

Ho conosciuto bravi direttori come Lucia Castellano, l’ex direttrice di Bollate che ora lavora al Ministero della Giustizia, Luigi Pagano che ha diretto per quindici anni San Vittore dopo Pianosa, Nuoro, Asinara, Alghero, Piacenza, Brescia e Taranto ed è stato vicecapo del Dap, uno che se in politica ne capissero di carcere e non fossero cattivi l’avrebbero nominato ministro della Giustizia da tempo, perché ne sa più di tutti, ed è una persona di rara onestà intellettuale e umana. Grazie al cielo lo è anche anche Giacinto Siciliano, l’attuale direttore di San Vittore.

Un paio di detenuti in semilibertà sono venuti a trovarmi a casa. Di altri di loro ho letto libri interessanti, come quello di Marcello Ghiringhelli, ex brigatista, o di Tino Stefanini.

Tutto questo lo racconto per spiegare che un po’ di carcere ne so: ci sarò entrata cinquanta volte, forse cento.

Un posto inutile

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Il rito è sempre quello. Lasci i documenti in portineria, prendi le chiavi dell’armadietto dove chiuderai il cellulare, passi il metal detector, entri e passi nove  cancelli. Dopo le rivolte del 2020, ne hanno installati altri qua e là per “spezzare” ulteriormente alcuni corridoi.

Tra gli agenti di polizia penitenziaria (non chiamateli secondini), gente che soffre il carcere insieme ai detenuti, c’è gente brava e gente pessima. I pessimi sono ovviamente ingiustificabili, ma non mi sfugge che c’è gente che si comporta in modo inqualificabile anche in posti meno orribili e malsani, e con stipendi assai migliori.

Il carcere è così: un posto brutto e pieno di gente che sta male. In più, è un posto inutile. La possibilità del reinserimento sta solo, in rarissimi casi, nella relazione che può crearsi tra un detenuto o una detenuta e qualcuno di fuori, educatore, psicologo, volontario, direttore, medico, magistrato di sorveglianza (può succedere) col quale si instaura un rapporto di fiducia che non si può tradire. 

Non chiedetemi «e allora i mafiosi gli assassini i pericoli pubblici dove li mettiamo» perché non lo so. Quel che so è che la maggior parte delle persone che sono in carcere, soprattutto nelle case circondariali, non ci dovrebbe stare, e non serve a niente che ci stia: la loro detenzione è solo una vendetta sociale, un dolore, uno spreco, una fatica, un esperienza devastante per loro e le loro famiglie e per le famiglie di quelli che devono tenerli in custodia, oltre che un costo a fondo perduto per lo stato e per noi. Molto spesso, per chi ci entra da giovane, è anche il posto dove si impara a delinquere sul serio, come ha scritto Tino Stefanini.

Torniamo al 9 marzo del 2020, quando noi là fuori, noi liberi, avevamo appena saputo che avremmo dovuto rinchiuderci  perché c’era un virus arrivato dalla Cina che stava ammazzando la gente. Ricordate come stavamo, e che paura avevamo?

Anche se potevamo cercare le notizie sul web, parlare coi nostri parenti e i nostri amici, telefonargli. Quelli di noi che vivevano da soli potevano comunque uscire a far la spesa, andare in farmacia,  correre, portare fuori il cane. 

In carcere, invece, stavano tutti chiusi dentro le loro celle sovraffollate. I colloqui, i corsi, le attività di ogni tipo erano state sospese. Soprattutto: non si capiva niente. I detenuti sapevano solo, dalla televisione, che non era certo tranquillizzante, che c’era in circolazione questo virus invisibile e che tutto stava chiudendo. Loro, a differenza di noi, non potevano in nessun modo proteggersi, mentre gli  agenti, naturalmente, continuavano a entrare e uscire e il virus poteva arrivare dentro in ogni momento e infierire. E chissà intanto cosa stava succedendo ai loro familiari, là fuori. E cosa sarebbe successo ai loro processi e a tutti i procedimenti penali in corso.

Il 9 marzo 2020, dal primo piano del Terzo Raggio-Tentacolo di San Vittore, per la paura, l’ansia, lo stress, la disperazione, la mancanza di notizie, che si sommavano a una condizione già stressata e in molti casi disperata, qualcuno ha cominciato a perdere la testa. È iniziata una protesta che in poco tempo è arrivata all’ultimo piano, quello della Nave. Alcuni detenuti sono usciti dalle finestre e sono saliti sul tetto urlando. Dal primo all’ultimo piano avevano distrutto mobili e incendiato carta e materassi. 

Mentre  succedeva tutto questo io ero lì, perché da casa mia si sentono le urla che partono dal Terzo Raggio e appena le ho sentite sono corsa in piazzale Aquileia. C’era un’atmosfera surreale, tesa, di pericolo. Avrei voluto dare una mano e ho scritto al direttore Siciliano un messaggio ingenuo: «Se posso servire sono qui fuori» perché immaginavo che tra quei detenuti che protestavano ce ne fossero alcuni che conoscevo. Il direttore non mi ha mai risposto, ovviamente. In piazzale Aquileia c’era anche un giornalista mio amico, il maestro del coro, Paolo Foschini, e abbiamo deciso di girare un video su quel che stava succedendo.

Nel video ho detto quel che pensavo: «Abbiamo paura anche noi. Provate a immaginare che paura possano avere, lì dentro, bla bla bla…». E terminavo dicendo: «Servono misure alternative». Dietro di me si sentivano le grida e si vedevano i detenuti sul  tetto protestare con le braccia alzate.

Il video quel giorno è stato caricato sul sito del Corriere, e i commentatori mi hanno coperta di insulti, fatto che non mi ha stupita e nemmeno ferita: so come vanno le cose col carcere. Il carcere lo odiano tutti. Alcuni amano il carcere degli altri, per così dire.

Quando sono stata per un anno e mezzo direttrice di Rai Tre ho deciso di produrre un programma che si chiamava Sono innocente: storie di persone che finiscono in carcere innocenti. Sono tante. Fin qui, la gente ci sta anche, a sentir parlare di carcere. Anche se tutti pensano «a me non potrebbe mai capitare». Come col cancro, o con gli incidenti stradali. Ma non è così: può capitare eccome,  a tutti. Può capitare di finire in carcere innocenti, può capitare di morirci, sotto custodia: in carcere, in caserma, in ospedale.

In carcere succedono anche cose che ci sembrano incredibili, come nel caso delle immagini di Santa Maria Capua Vetere mostrate da Nello Trocchia sul sito di Domani il 30 giugno dell’anno scorso: detenuti picchiati, insultati, umiliati da chi dovrebbe averne cura. Pestaggio di stato, il suo libro appena uscito per Laterza, racconta tutta la storia di quel trattamento alla Diaz per il quale i deputati di Fratelli d’Italia a giugno 2020 hanno chiesto un «encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria che ha dimostrato di possedere spiccate qualità professionali e di non comune determinazione». Il primo firmatario era Andrea Del Mastro Delle Vedove, oggi fresco sottosegretario alla Giustizia.

I morti 

E poi ci sono i morti. I tredici morti di marzo 2020. Nelle rivolte di San Vittore per fortuna non morì nessuno, ma nelle altre, scoppiate in ventuno diversi istituti, sono morti tredici detenuti. Ufficialmente la causa della morte è stata overdose da metadone rubato in infermeria. Nove morti riguardano la Casa circondariale Sant’Anna di Modena. Altri tre detenuti sono morti a Rieti e uno a Bologna.

Una strage inaudita e inammissibile che agli occhi dell’opinione pubblica è passata quasi inosservata, come se fosse stata un effetto collaterale della pandemia.

Sono morti Marco Boattini di 40 anni, Ante Culic, di 41, Carlos Samir Perez Alvarez di 28, Haitem Kedri di 29, Hafedh Chouchane di 37, Erial Ahmadi di 36, Slim Agrebi di 40, Ali Bakili di 52, Lofti Ben Mesmia di 40, Abdellah Rouan di 34, Artur Iuzu di 42, Ghazi Hadidi di 36, Salvatore Cuono Piscitelli di 40.

Salvatore Piscitelli era dipendente da quando era ragazzino. Era nato ad Acerra, un comune tra Napoli e Caserta, cresciuto con la nonna perché i suoi erano morti quando aveva meno di un anno. Era finito alla Casa circondariale Sant’Anna di Modena per aver usato una carta di credito rubata.

Sul suo caso, come su altri, ci sono molte testimonianze ed esposti di altri detenuti che parlano non solo di omissione di soccorso ma proprio di feroci pestaggi. Molti tra i morti sono stati cremati «per via del Covid». Molti procedimenti sono stati archiviati.

Gianluca, il ragazzo che si è tolto la vita appena uscito da La Nave, aveva scritto poco prima di andarsene un articolo per L’Oblò sul suo luogo del cuore.

Diceva che era Monte Stella, la Montagnetta di San Siro, dove aveva trascorso  l’adolescenza coi suoi amici e dove aveva «tanti bellissimi ricordi: le partite di calcio, le prime fidanzatine», e dove «i  giorni passavano leggeri e non immaginavo che un giorno sarei stato inghiottito dalla tossicodipendenza fino a entrare in carcere».

Ho lasciato il funerale prima che finisse per passare dal Monte Stella, il posto preferito di Gianluca. Era proprio a pochi passi dalla chiesa.

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