Nel 1985 l’Università di Harvard invitò Calvino a tenere un ciclo di sei conferenze per il successivo anno accademico. Quelle lezioni speciali erano nominate le “Charles Eliot Norton Poetry Lectures”, in onore del professore di storia dell’arte che insegnò in quell’università fino al giorno del suo pensionamento, e da quando quasi sessant’anni prima erano state inaugurate, Calvino sarebbe stato il primo scrittore italiano a prendervi parte. Scrisse cinque lezioni nella villa, immersa nella pineta, nel borgo toscano di Roccamare, ad appena sei metri sul livello del mare, dove era solito trascorrere i mesi estivi con la moglie Esther Judith Singer. Avrebbe scritto la sesta lezione nel corso della residenza ad Harvard, così pare avesse previsto.

Purtroppo, però, quella stessa estate Calvino fu colpito da un ictus fatale. A parte questa sesta lezione mai realizzata, e che avrebbe dedicato alla Consistenza, le altre cinque sono universalmente note come le Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio.

Nell’intervento che intitolò alla rapidità, Calvino propose questa breve storia. «Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno di un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo dieci anni il disegno non era ancora cominciato. Ho bisogno di altri cinque anni disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto».

I tempi degli scrittori

Ora, a meno di frequentare abitualmente artisti che dipingono crostacei acquatici, una volta incontrato questo piccolo classico della letteratura taoista, viene probabilmente comodo pensare agli scrittori e alle loro abilità tecniche, alle loro doti, alle consuetudini anche, e agli stratagemmi con cui quelli tentano di alleviare le angosce che li accerchiano nel loro tentativo infinito di disegnare il miglior granchio possibile. Occorre sentirsi in difetto prima d’iniziare; essere disponibili all’errore, ma anche d’un tratto bisognerebbe forse mostrare una nobile risolutezza e non staccare più la matita dal foglio. Del resto, ogni volta che qualcuno disegnerà un granchio – ogni volta che uno scrittore inizierà un nuovo romanzo – saranno innanzitutto lo sconforto e l’angoscia a sedersi accanto a lui alla scrivania. Anche se quel libro è l’ennesimo della sua carriera.

«Non sapere come trattare il proprio argomento è peggio che non conoscerlo», affermava Philip Roth. E lo sanno gli scrittori quanto, dopo quel primo giorno penoso, durevole e completa dovrà essere la loro dedizione.

Dorothy Parker, per esempio, non riusciva a scrivere cinque parole senza cambiarne sette. Per le trecento pagine di Madame Bovary ce ne sono quattromilacinquecento di appunti e note. Lo studio di Flaubert si trovava al piano di sopra della casa di famiglia. Di solito scriveva dal primo pomeriggio fino al mattino, interrompendosi unicamente per cenare.

«Una buona frase in prosa dovrebbe essere come un buon verso in una poesia, inalterabile, perché altrettanto ritmico, altrettanto sonoro», perciò leggeva a voce alta – chiamava il suo studio il gueuloir, l’urlatoio – e perciò, quasi ogni settimana, invitava un amico a cui leggeva quello che aveva scritto in quei giorni.

Arrivò a trascorrere un lunedì e un martedì a limare due righe. Ci sono granchi che richiedono una dedizione ammaliante e terribile, persino raccapricciante, come la sua che scrisse quel romanzo, per sua ammissione, «come un uomo che suona il piano con palline di piombo attaccate alle nocche».

Lenti o lesti

Eppure il granchio presume la disinvoltura del tratto. Il suo autore lo elabora con puntiglio, lo misura con precisione, e solo alla fine, illudendo tutti di averlo sempre saputo fare, esegue il disegno. E ovviamente non è soltanto una questione di tempo. C’è chi, infatti, può essere rapidissimo. Georges Simenon si assicurava di non aver impegni per i successivi undici giorni; chiamava il medico per farsi misurare la pressione e, solo se era in salute, iniziava a scrivere; undici giorni dopo il romanzo era finito, e la pressione arteriosa risultava notevolmente scesa.

Un altro caso di lestezza è quello di Elizabeth Bishop che scrisse il racconto In the village in appena due notti rese insonni dalla combinazione di cortisone, per curare un grave attacco d’asma, e qualche bicchiere di gin tonic. Ciascun granchio richiede una specifica ricetta, seppure imprevista. Se si sarebbe sottoposta allo stesso trattamento per scrivere il racconto successivo, anche visto e considerato che con quell’altro aveva vinto il Pulizer? La Bishop assicurò di no. E così impariamo che ogni sollecitudine, proprio perché specifica, non è replicabile per il granchio successivo.

Inoltre per tracciare sulla propria pagina il miglior granchio, c’è chi si prepara guardando i granchi degli artisti del passato. Come Joan Didion che rileggeva sempre Vittoria di Conrad prima di iniziare ogni nuovo romanzo, e prima di scrivere un film, lei e suo marito, riguardavano sempre Il terzo uomo. E c’è chi, al contrario, disegna pressoché con i paraocchi, imponendosi di non vedere granchi altrui, né esteri e men che mai nostrani, fino a quando non avrà tracciato perlomeno il primo abbozzo del suo: dice che si distrarrebbe, che potrebbe lasciarsi influenzare.

E che nessuno prenda alla leggera la faccenda del granchio, basti ripensare a James M. Cain, secondo il quale scrivere un romanzo equivaleva a occuparsi «di politica estera, si tratta di risolvere problemi». Non è mai solo un carapace e un paio di chele e la spiaggia intorno. È molto più di così. È sempre molto più di così.

Una scheggia di ghiaccio

C’è chi istintivamente si accorge che qualcosa non stia andando per il verso giusto, come ad esempio Alice Munro che ha dichiarato che «quando ho un rifiuto terribile ad avvicinarmici, quando devo sforzarmi per continuare, capisco di aver commesso qualche gravissimo errore», e c’è chi, invece, proprio è incapace a sentire l’errore.

Nel racconto di Honoré de Balzac Il capolavoro sconosciuto c’è un vecchio pittore di nome Edouard Fenhofer, «ragionevole o pazzo?», che da sette anni è impegnato a rifinire il suo dipinto. È restio a esibirlo, finché un collega, giovane e curioso, con l’inganno lo convince a mostrarglielo. E cosa vede? Vede «una parte di un piede che fuoriusciva dal caos di colori di toni, di toni, di sfumature indecise, una specie di nebbia informe», e vede «colori ammassati confusamente e contenuti in una moltitudine di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura». Vede purtroppo un pasticcio colossale, vede un fallimento lungo sette anni. Occorrerebbe davvero avere l’intuito di comprendere quando fermarsi, quando allontanarsi dal tavolo e maledire quel granchio per sempre.

Quando nel 1975 uscì Horcynus Orca, dopo una gestazione durata vent’anni, Stefano D’Arrigo dichiarò che ormai a quella sua opera, dopo così tanti ostacoli e lungaggini e sudore, «non poteva capitare più nulla» (e qui poco deve importare se Giorgio Manganelli avrebbe chiosato malvagiamente: «Nemmeno d’essere letta»).

E quali sono le condizioni auspicabili del cuore o dell’animo di chi disegna i granchi? Pare che Charles Dickens mentre scriveva si strozzasse dalle risate o, se moriva uno dei suoi personaggi, bagnasse le pagine. Graham Greene sosteneva che lo scrittore dovrebbe portare una scheggia di ghiaccio in prossimità del cuore. Truman Capote, invece, si asciugava le lacrime e rideva prima di iniziare a scrivere: dopodiché, e soltanto quando disponeva della sua testa in modo «deliberato, duro e freddo», prendeva la penna in mano.

E il granchio, una volta disegnato, come lo si valuta? Con quali occhi lo si giudica prima ancora di proporlo pubblicamente? Tiziano, secondo il suo allievo Palma il Giovane, lasciava riposare i suoi dipinti addossati con la faccia rivolta verso il muro, senza più guardarli per tutti quei mesi. Poi, dopo un lungo periodo in cui non li sbirciava neanche, li girava e «li esaminava con attenzione rigorosa, come se fossero stati dei nemici mortali». Se c’è un talento rarissimo tra i disegnatori di granchi è quella di valutare sé stessi.

Ogni granchio, il primo come l’ultimo, vuole la protervia. Vuole la caparbietà. Vuole l’idiozia. È «atroce», secondo Roland Barthes, il sacrificio totale e ostinato di chi scrive, un po’ fesso un po’ indefesso.

Ma infine, a cotanta consacrazione, seguirà una soddisfazione analogamente grandiosa?

Si direbbe di no, almeno secondo il pittore giapponese Hokusai: «Sin dalle età di sei anni ho amato dipingere qualsiasi forma di cosa. All’età di cinquanta ho disegnato qualcosa di buono, ma fino a quel che ho raffigurato a settant’anni non c’è nulla degno di considerazione. A settantatré ho un po’ intuito l’essenza della struttura della natura, uccelli, pesci, animali, insetti, alberi, erbe. A ottant’anni avrò sviluppato questa capacità ancora oltre mentre a novanta riuscirò a raggiungere il segreto della pittura. A cento anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino. Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria. Prego quelli tra loro signori che godranno di lunga vita di controllare se quanto sostengo si rivelerà infondato».

Ora almeno sappiamo quanto dovremo aspettare. E che sarà il giorno in cui soffieremo centodieci candeline il giorno in cui il nostro granchio sarà finalmente perfetto.

 

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