Marlon Brando ha avuto Un tram che si chiama desiderio. James Dean ha avuto Gioventù bruciata. Ryan Gosling ha avuto Drive. Sono stati i loro portoni d’ingresso per entrare nella mitologia. Ma la mitologia è sempre perfettibile. Ammetto di aver contribuito con la mia copia allo spropositato successo di un libriccino stile calendario sexy (castigato) che nel 2013 ha furoreggiato tra le non-lettrici (ma assidue spettatrici) del globo, 100 Reasons To Love Ryan Gosling.

Da un giorno all’altro l’attore senza labbra (ma meravigliosamente senza labbra, come Steve McQueen) era diventato symbolic of everything modern manhood should aspire to, il simbolo di tutto quello cui la moderna popolazione maschile dovrebbe aspirare. Da Drive, del 2011, lo status di sex symbol del terzo millennio dell’ex baby star Disney Channel ha avuto picchi e flessioni. È arduo trovare seduttivo il Ken ossigenato e narcisista di Barbie, in barba ai suoi 1.4 miliardi di incassi. Agli oggetti del desiderio è vietato far ridere. Ma l’ironia è anche la chiave di un film che consacra l’icona oltre le più sperticate fantasie femminili, intrecciando Drive e Crazy, Stupid Love, film d’azione fracassone e screwball comedy rivisitata.

Il suo bello è che non vuol essere una ciliegina sull’altare della mitologia, non è un film fabbricato, come usava un tempo per i divi in carica, a misura di star. Ryan Gosling ed Emily Blunt lo hanno di fatto lanciato insieme dal palco degli Oscar, presentando in coppia la nuova casella dell’Academy riservata agli stuntmen. Reduci l’uno da Barbie e l’altra da Oppenheimer, giocavano sulla sfida tra i due campioni del 2023. E vale la pena di andarsi a cercare su Google il loro sketch al Saturday Night Live, altro assaggio godibile diventato virale. Il film che li riunisce è The Fall Guy, e sarà in sala con Universal dal 1° maggio. Non è blasonato, non ha altre ambizioni se non quella di divertire, ma al fan club tribale dell’Uomo Senza Labbra offre una centounesima ragione di culto, sospetto definitiva.

La classe operaia del cinema

L’uscita per il 1° maggio, festa dei lavoratori, casualmente è parecchio azzeccata. Gli stuntmen appartengono alla classe operaia del cinema, sono i blue collar, i manovali oscuri, dietro le quinte e senza gloria. I fall men, nel mondo degli stunt, sono quelli che cadono dai cavalli, dalle moto o da una rampa di scale, quelli che si schiantano con le auto, prendono fuoco e si fanno male, o sono attrezzati per non farsene davvero. Sono il Brad Pitt di Quentin Tarantino in C’era una volta..a Hollywood.

The Fall Guy era il titolo di un popolarissimo show tv degli anni ’80 di Glen A. Larson, in onda su ABC dal 1981 al 1986. Protagonista era il leggendario Lee Majors, e il suo personaggio, Colt Seavers, era uno stuntman di Hollywood che si improvvisava cacciatore di taglie. Le acrobazie adrenaliniche, abbondantemente condite di umorismo, ne fecero un programma di culto.

David Leitch si è fatto le ossa per un ventennio come stuntman, prima di approdare alla regia con blockbuster come Bullet Train e Atomica Bionda. Sul set di Fight Club, da controfigura di Brad Pitt, ha avuto la folgorazione: poteva passare dall’esecuzione alla progettazione di action design e coreografie, fino addirittura alla produzione.

Ma la sceneggiatura architettata da Drew Pearce, con una spolverata di noir, sembra concepita per dotare Ryan Gosling di quel genere di superpoteri in materia di look che solo lo schermo può dare. Per il regista, The Fall Guy ha un bell’essere «una lettera d’amore per gli stuntmen e gli eroi non celebrati dell’industria cinematografica, gli artigiani altamente qualificati, gli addetti ai lavori, i fonici, gli assistenti di scena e tutti coloro che mettono il cuore e la loro anima per creare la magia della narrazione sullo schermo».

Di tanto tributo, in soldoni, ti porti a casa due ore di garantito entertainment e un Gosling, il Colt Seavers vintage risorto per i nipotini del vecchio show, carismatico all’ennesima potenza senza retorica e senza prosopopea. Anche il suo driver di Nicholas Winding Refn nei ritagli di tempo faceva lo stunt. Ma qui è come se volesse mettere quella sua pietra miliare in parodia. Per il puro e banale piacere di un popcorn movie che in zona Oscar non arriverà mai.

Muscoli sì, ma romantici

Screwball comedy, dicevamo. Se non vuoi incasellarti in un genere che porta al cinema solo i nostalgici di Arma Letale e Die Hard devi far interagire Ryan Gosling con un essere umano di genere femminile. Lei è Jody Moreno (Emily Blunt). Di mestiere fa il direttore della fotografia e nella vita fa coppia con lo stunt Colt-Ryan. Sul set però lui si fa male di brutto per una caduta vertiginosa e scompare dai radar di Hollywood. Si è messo a fare il parcheggiatore.

Un SOS della sua produttrice storica (la Hannah Waddingham di Ted Lasso) lo costringe a rimettersi in pista e a volare a Sydney, in Australia, dove l’amata Jody, in omaggio all’empowerment femminile di oggi, debutta alla regia con una bislacca love story tra uno space cowboy e un’aliena. Sul povero Colt incombe, oltre alle ammaccature da set, la mission di rintracciare la star che da sempre si vanta di fare in proprio tutte le scene rischiose. È in ballo la carriera della sua donna del cuore, e il brav’uomo si troverà impelagato in un omicidio da smascherare, ovviamente non a favore di cinepresa.

Il plot in estrema sintesi sarebbe poco allettante senza il contorno di battibecchi amorosi pubblici (via megafono) tra gli ex, che tanto ex poi non sono, e senza il fiume di comiche citazioni dai classici, da Rocky a L’Ultimo dei Mohicani, passando occasionalmente per Dumbo e per materializzazioni di unicorni narcotici. In realtà il film stabilisce anche dei record acrobatici. Nell’inseguimento sulla spiaggia la controfigura Logan Holladay ha battuto il precedente World Guinness con otto e mezzo cannon roll, leggi ribaltamenti, con l’auto, tanto per dire. Ma non ci fai caso, perché si mette in satira il maistream muscolare. Colt Seavers è salutarmente, allegramente anti-macho anche quando gli stampano addosso la canottiera immortale di Stanley Kowalski, strategicamente bagnata.

Quel libriccino agiografico del 2013 promuoveva Ryan Gosling allo status di «icona femminista». Tra i suoi meriti, per il pubblico delle devote, c’è quello di essersi sistemato con una donna tosta, bella e decisamente intelligente, al secolo Eva Mendes. C’è un rilevante comprimario canino, nel film, che accetta solo comandi in francese. È un personale contributo dell’attore alla sceneggiatura, un omaggio al defunto e amatissimo Hugo, il malinois belga della compagna, francofono, a modo suo. Mi sembra un gesto meno corrivo delle magliette amorose che Totti esibiva in campo, ma singolarmente gentile. È un titolo sufficiente per la qualifica di femminista? Chi è in vena di sondaggi frivoli è pregato di verificare.

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