La mattina in cui devo partire trovo un bicchiere d’acqua sul tavolo. È strano perché non lascio mai niente sul tavolo dove lavoro.

Non volevo andare a Castrocaro ma Ornella (Vanoni) ha insistito: il posto è bellissimo, i trattamenti (termali) ottimi, ti piacerà. Ma non posso. Ma si che puoi. Dobbiamo conoscerci, devi fare un film su di me. Decido di darle retta, ma solo una notte e solo a patto di girare qualcosa.

Mi vengono a prendere molto presto con un pullmino bianco sgangherato. Siamo io con il cane, Simone che poi sarà uno dei due direttori della fotografia del film, e un mio amico che fa tutt’altro e guida. Il viaggio è lungo, fa caldo anche se è solo maggio, ci fermiamo in un autogrill su una statale, una baracca con fuori un ombrellone giallo che sbatte di vento. Mangiamo un gelato industriale, ci fa sentire a casa.

L’hotel 

Arriviamo dopo svariate ore e curve e dal finestrino vedo solo hotel termali chiusi. Insegne buttate per strada sepolte da erba e foglie e fiori. L’hotel è un monumento fascista inaugurato nel 1938, un transatlantico con tende arancioni grandi come vele, saloni, scalinate, parco e padiglione per feste. Un posto della memoria che però non è la memoria della mia protagonista, mi piace per questo. Pieno di fantasmi che però non sono i suoi.

Ornella è nella sua stanza, è venuta qui per una vacanza. L’anno è stato duro, orribile e meraviglioso (come tutto, come sempre) tra Covid, disco nuovo, affetti e perdite. Insomma la vita che va e passa e punisce e dona a novanta come a trent’anni. Forse un po’ di più a novanta ma insomma la differenza è poca.

L’albergo dicono sia pieno, e lo ripeteranno anche un mese più tardi quando gireremo il film, eppure non c’è mai nessuno nei saloni, nel parco, nei corridoi altissimi, nella sala dove mangiamo a un tavolo per 25. Anche se siamo solo cinque, ci ha raggiunto il fonico e una ragazza molto gentile che si prende cura di noi e ci aiuta a orientarci qui dentro.

Nella stanza 

Salgo da Ornella, la stanza è un gran casino, nel film racconterà che quel casino viene da molto indietro, quando viaggiava e si ritrovava da sola in quegli alberghi tristi dove per me è sempre domenica. Per renderli meno tristi li riempiva di roba sua, compresa la metà del letto in cui non dormiva.

Mi apre in accappatoio, sotto è nuda (tu come stai in accappatoio scusa?) fuma la canna prescritta dal medico, il suo cane Ondina fa un gran casino. Parliamo e la riprendo con il telefono, non si sa mai, si deve preparare, le spiego che vorrei fare dei provini, anzi prove: vedere questo posto mi ha fatto venire voglia di raccontarlo. Non so cosa faremo: è un tentativo, un esperimento. Capirò più avanti, girando il film, che non c’è altra via con lei che l’esperimento. Ornella preparati sono le tre e sei ancora in mutande, macché mutande sono senza, è ora che ti fai una doccia e iniziamo. La riprendo ancora sotto la doccia, lei non se ne accorge, non riprendo mai il corpo, solo la testa rossa. Il corpo lo vedo sotto il margine del telefono. Non vorrei guardarlo, non riesco a smettere di guardarlo. Parliamo dei cazzi nostri come sempre. È lei a farmi domande. È curiosa ma si annoia subito. Quando mi chiama è affettuosa ma dopo una trenta secondi si distrae, il cane, un amico, un’altra telefonata: amore ti richiamo. E non richiama. Ma nessun dolore. Vuoi la tuta bianca o il caftano rosso? Tuta bianca, la divisa da spa, la divisa del paradiso. Simone prepara la macchina da presa, avrebbe bisogno di altri ma questa è una prova e accetta di fare da solo (prova che finirà nel film). Sale anche il fonico, Ornella cerca le mutande, stanno sotto il ciak, il fonico gliele indica.

Memorie 

Inizia lì il film, quel sabato pomeriggio in cui la trascino per l’hotel, il giardino, le fontane e le fila di alberi, fino al padiglione. Lei scalpita ma mi lascia fare, si lamenta ma si presta, è nervosa eppure comoda. Il padiglione di giorno non è impressionante come quando di notte sembra un ritrovo di fantasmi. Un signore della manutenzione mi ha detto è pieno di roba, pieno di gente di notte qui dentro. E io che pensavo scherzasse e lui che pensava che capissi che non scherzava. Ho capito più tardi, ma ci vuole ordine e quindi continuo la storia. Tra Shining e Otto e ½, gli spazi sono poetici nel senso di non retorici, e spaventosi per quanto belli, immobili nel tempo. Tutto conservato, dalle prese ai lampadari. Qui facevano pure il festival di Castrocaro, presente le voci nuove? Ornella hai mai partecipato? E chi si ricorda. Cerca su YouTube, su Google. Vorrei che tu mi dicessi le cose della tua vita, perché la memoria che mi interessa è la tua, non i fatti. Non ho mai avuto risposta comunque. Una sala enorme come un teatro, bellissima; mi dice la ragazza che ci accompagna che qui fanno convention di medici, congressi di avvocati, di tutto insomma. E si può proiettare su un telo che scende. Dobbiamo andare via in fretta, arriverà un raduno di Elvis. Elvis? Eh già, da tutta Italia. Vorrei riprendere il raduno ma non si può.

Mentre cammino penso alla scena che sarà il quasi-finale del film: Ornella di oggi guarda Ornella giovane, Vanoni contempla Vanoni che fu mentre canta Domani è un altro giorno proiettata. La sala piena di sedie per invisibili fantasmi. Sarà buio se non per un riflettore perso chissà dove. Immaginavo che il confronto della protagonista con sé stessa fosse un momento struggente, magari commovente anche per lei, e invece girando si è incazzata parecchio e con tutti per il caldo bestiale, per il mal di pancia, per le richieste (cammina verso lo schermo e guarda te stessa). Tu mi vuoi ammazzare, no io voglio solo fare un film. Non ho mai potuto fare una prova, quel pomeriggio come durante le riprese, mai mai mai, perché sostiene che le cose non si provano altrimenti si scaricano (condivisibile in astratto ma se fai un film un po’ meno).

I fantasmi 

La giornata finisce nei cinquanta gradi della piscina coperta, densa acqua salsobromoiodica verde preistoria. Lei a bagno racconta Paoli e la sua passione per la forma dell’acqua. È così carino quel mostro. Dillo a me, volevo sposarlo. La luce del giorno finisce e finiscono le riprese; sono contenta di quello che abbiamo fatto.

Ci ritroviamo a cena, solita tavola da 25, Ornella illumina il menù con una candela nonostante le luci accese. Il mio amico le regala un collage con lei che canta mezza sirena. Siamo tutti stanchi, andiamo a letto. Ornella vorrebbe parlare ancora con me ma le dico che ho paura a tornare in camera mia di notte, troppo distante, troppi fantasmi. Eh già tesoro ti perdi qui dentro.

Finalmente sono sola nella mia stanza con il mio cane. Fa ancora caldo, spalanco la finestra mi affaccio sulla valle senza case e senza uomini. Mi spoglio e dormo, sento l’estate che trama là fuori. Dopo un certo tempo mi sveglio, è buio e ho la testa piena di nebbia. Prendo il telefono per vedere l’ora. Sono le sette. Di solito mi sveglio alle cinque, brava ti sei riposata. Ma è ancora notte. Come può essere? Guardo la finestra, le tende sono ben tirate, mi alzo le scosto e vedo che la serranda è abbassata. Non l’ho abbassata io, né ho tirato le tende. Terrorizzata accendo la luce, sulle lenzuola una macchia, è bagnato come se qualcuno si fosse fatto una doccia per poi stendersi accanto a me. Mi tocco addosso, non sono io quel qualcuno. Non sono sonnambula, non mi è mai successo niente di simile. Apro tutto, per prima cosa la porta della stanza, e scendo di corsa alla reception. Ci sono fotocellule alle finestre? Quando sorge il sole le serrande scendono sole? Non stiamo in Giappone. Lo racconto alla cameriera cinese della colazione che si mette a ridere, e poi: dai voleva solo farti riposare. Voleva chi?

Ornella dormirà fino all’una e noi partiremo ben prima senza salutarla.

Al cancello incontreremo un piccolo esercito di Elvis, una cinquantina. Non farò nemmeno una foto.

A casa troverò un altro bicchiere d’acqua sul tavolo, e delle chiavi che ho perso tanti anni fa. Il tempo non esiste, il tempo si può solo raccontare.

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