È morto Paul Auster, icona della letteratura di New York e di Brooklyn. Autore della celebre Trilogia di New York, di 4321, di film di culto come Smoke con William Hurt e Harvey Keitel. Ha scritto nel 2023 Baumgartner, (Einaudi, ne ha scritto per Domani Giulio D’Antona), il suo ultimo libro, fatto di ironia e fatalismo, già malato in un letto d’ospedale.

La vita di Seymour Baumgartner è stata definita dall'amore per la moglie Anna. Ma ora Anna non c’è più e Baumgartner si inoltra nei settant'anni cercando di convivere con la sua assenza. Professore di filosofia, vedovo da dieci anni, Baumgartner non si è mai rassegnato alla perdita della moglie, traduttrice e poetessa, e affronta la vita con un senso di straniamento e una certa goffaggine. Nonostante le malinconie e gli acciacchi dell’età, però, Baumgartner è una persona affabile e generosa.

Possiede la saggezza di chi ha vissuto e sa quanto sono importanti i rapporti umani, che vanno coltivati con cure continue e una buona dose di ironia e di umorismo. Passando gran parte del tempo a lavorare nel suo studio, Baumgartner intreccia una buffa e disperata trama di relazioni con le persone che si affacciano alla sua porta, finché in un sogno, o visione del dormiveglia, incontra Anna, che gli rivela di essere bloccata in una terra di mezzo tra il mondo dei vivi e l’aldilà: è l’inguaribile nostalgia del marito a impedirle di concludere il suo ultimo viaggio.

Per liberare Anna, con logica ineccepibile, Baumgartner decide di far procedere la sua vita e si butta in una relazione sentimentale con una loro vecchia amica. Ma questo è solo l’inizio di una serie di vicende imprevedibili e scatenate come solo Paul Auster, il virtuoso della «musica del caso», poteva immaginare. Perché ricordiamo certi momenti e ne dimentichiamo altri? Cosa resta di noi quando non ci siamo più? Pieno di tenerezza, lo sguardo di Paul Auster riesce a trovare la bellezza negli episodi fugaci di un’esistenza ordinaria e unica allo stesso tempo. Baumgartner è un capolavoro sul dolore della memoria.

Maestro del Postmodernismo

Tradotto in oltre quaranta lingue, Paul Auster ha venduto milioni di copie dei suoi libri, ha raccontato New York e l’America, era amico di Wim Wenders e Woody Allen. Protagonista della letteratura americana contemporanea, e dunque di quella mondiale, è ritenuto il maestro del Postmodernismo insieme ai suoi grandi amici Thomas Pynchon e Don DeLillo.

Quando ho cominciato a leggerlo negli anni Ottanta aveva una cultura molto francese, allora dominante. Insegnavano contemporaneamente a Parigi Lévi-Strauss, Barthes, Lacan, Foucault, Derrida, Deleuze, Baudrillard. Oggi sembra un’impensabile luna park della cultura. E col treno notturno che partiva da Firenze, andavamo spesso a respirare quell’aria. I francesi gli hanno ricambiato il favore, riconoscendogli lo status di pop star.

I suoi libri venivano venduti a Parigi nei supermercati. Era una figura romantica e bohémien, che viveva alla giornata in una casa francese con la sua prima moglie, Lydia Davis, e cercava di guadagnarsi da vivere grazie alla traduzione letteraria. Era attratto autori d’avanguardia come Alfred Jarry e Raymond Roussel e dall'applicazione sistematica di regole nel processo di scrittura vincolata da parte di Georges Perec e del gruppo di scrittori e matematici dell’Oulipo negli anni Sessanta e Settanta.

Voglio infine ricordarlo col suo primo libro che lessi, un romanzo magnifico, Moon palace del 1989, tradotto da Rizzoli nel Novanta col titolo Il palazzo della luna, oggi leggibile nei tascabili di Einaudi.

«Era l’estate in cui per la prima volta gli uomini posero piede sulla luna. A quei tempi ero molto giovane, tuttavia non credevo che esistesse un futuro» l’incipit folgorante.

Così Marco Stanley Fogg, moderno David Copperfield alla ricerca di un’identità e di un passato, inizia il racconto del suo viaggio straordinario fatto di una serie di avventure picaresche. Un viaggio nello spazio – dai “canyon” tra i grattacieli di Manhattan agli sconfinati deserti dello Utah, fino alla frontiera dell’Oceano Pacifico – e soprattutto nel tempo.

Naturalmente Marco è orfano; sua madre muore a 29 anni, suo padre è un mistero di cui non rimane nemmeno una foto, e cresce con lo zio Victor, uno sfortunato clarinettista itinerante che gli lascia la sua biblioteca personale di 1.492 libri. I cartoni che li contengono fungono da mobili per il nostro studente-eroe; poi quei libri li legge, li vende e, finalmente indigente, vive per un po' a Central Park, lì incontra tanti miracoli quante depravazioni, sopravvive per un po' in una grotta e alla fine viene salvato dal suo amico Zimmer e Kitty Wu, una giovane ballerina cinese di cui si innamora.

Con un gusto per l’intreccio di tipico sapore ottocentesco Moon Palace è una prova di maestria narrativa e Paul Auster è forse l’ultimo dei “classici” americani. I temi e i motivi ci sono tutti: l'orfano assediato, il padre scomparso, il romanticismo condannato, la fortuna sperperata, il potere totemico dell'Occidente, il viaggio come iniziazione.

Auster trasforma la mitologia del West americano in Moon Palace, la sua bellezza, la violenza e il misticismo indiano fanno da contrappunto al crudo terreno di New York e al resto dei dettagli del romanzo. E non sorprende che la tappa finale dell'odissea di Marco Fogg porti il ​​nostro eroe in quel paesaggio primordiale.

Con la morte di Effing e la relazione di Marco con Kitty Wu rovinata dall'aborto che lei vuole e che Marco non può accettare, il romanzo chiude il cerchio: Marco Stanley Fogg è di nuovo solo, orfano molte volte, indigente, perso questa volta non a Central Park ma in quel posto al mondo che più assomiglia alla luna, il sud-ovest americano. Per quattro mesi vaga. Come molti veri e propri eroi archetipici americani, Marco conclude la sua ricerca in California, a Laguna Beach. «È da qui che comincio, mi sono detto, è da qui che inizia la mia vita.»

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