La mostra di Julius Evola proposta dal Mart di Trento e Rovereto offre una rara occasione di vedere raccolti i dipinti di un filosofo caro alla destra radicale. Che in un periodo storico segnato da sovranismo e derive autoritarie si tenti di valorizzare la figura di Evola pittore non sorprende. La mostra ha tuttavia il merito di consentire a chi queste opere le ha viste solo in riproduzione di coglierne limiti e peculiarità: la pittura, per essere compresa nelle sue qualità intrinseche, va vista dal vivo, non in fotografia.

Per quanto influenzati prima dal dinamismo futurista di Giacomo Balla  e di Gino Severini, e poi dall’astrattismo spiritualista di Kandinskij (che aveva propensioni teosofiche), questi dipinti presentano ben più di una ingenuità. Le pennellata sono goffe, le linee incerte, la definizione dei punti di contatto tra le diverse masse pittoriche testimonia scarsa padronanza tecnica. A farla breve, come pittore Evola non spicca né per abilità tecnica né per originalità.

Il suo è un velleitario tentativo di tradurre visivamente un problematico travaglio filosofico ed esistenziale. Ovviamente so bene che la destrezza con i pennelli non è sufficiente a fare di un pittore un buon artista. Ne danno prova Sciltian, Annigoni e i fratelli Bueno, anche loro in mostra al Mart (Pittori moderni della realtà) in questo momento. Molti virtuosi non sono buoni artisti, così come artisti privi di grandi abilità tecniche possono egualmente riuscire a dare una forma estetica compiuta al contenuto che vogliono esprimere. Quest’ultimo non è caso di Evola. 

Quanto fragile Evola sia stato come pittore è ulteriormente dimostrato dai dipinti degli anni Sessanta, che i curatori della mostra (Beatrice Avanzi e Giorgio Calcara) – volendo ben presentare l’artista – avrebbero potuto evitare di esporre proprio perché rivelano la mediocrità della sua pittura e la sua estetica da pittore dilettante. Se si fa una comparazione tra un quadro come Nudo di donna afroditica (1959) di Evola e un quadro di Severini come Ballerina in blu (1912), ci si rende conto che, già in ritardo nei suoi primi dipinti futuristi  – che sono del 1915-16 – Evola abbia continuato maldestramente e con scarsi risultati a guardare anche in tarda età i maestri del Futurismo.

La presa di posizione di Sgarbi

Vittorio Sgarbi, che orgogliosamente rimarca che questa mostra l’ha voluta lui, scrive in catalogo che Evola è un “antagonista del mondo moderno, che lui stesso aveva contribuito a far nascere”. Il ruolo di Evola negli sviluppi che in arte hanno portato al modernismo è invece pressoché nullo, come del resto anche questa mostra testimonia. Non convince neanche l’affermazione che la Evola abbia subito negli anni del dopoguerra una condanna all’oblio per la sua adesione al fascismo, “come toccò a molti artisti, e a lui in particolare, con una violenza analoga a quella che colpì Ezra Pound e Celine”. Non c’è damnatio memoriae che regga dinanzi a un lavoro di qualità, come testimoniano proprio gli esempi di Pound e Celine, che non mi pare affatto siano stati dimenticati o non siano stati ben studiati anche da chi ne rifiutava il pensiero. Basti pensare che l’opera di Celine è inserita nei classici della Pléiade di Gallimard. L’arte è forma oltre che contenuto. È per la forma del loro linguaggio che Pound e Celine hanno un posto nella cultura del Novecento.

In altre parole, il fatto che Evola abbia nel tempo concepito teorie reazionarie che hanno alimentato il radicalismo di destra non influisce sulla valutazione della sua produzione pittorica, che non offre soluzioni formali comparabili con le espressioni più elevate dell’arte del Novecento. Si ha invece la sensazione che sia proprio il momento storico che stiamo vivendo a spingere alcuni a promuovere figure come Evola. Emil Nolde, Maurice Vlaminck, André Derain o Mario Sironi alla lunga non sono stati penalizzati per le scelte politiche quando ci si è trovati a fare i conti con le loro opere, che i musei non hanno potuto fare a meno di accogliere. Risulta difficile pensare che la scure della censura ideologica sia caduta proprio sull’opera pittorica di Evola.

Era un pittore modesto

La vasta produzione teorica non lo salva dall’essere un pittore modesto con idee sull’arte non molto chiare. Si era inizialmente avvicinato al Futurismo, fraintendendone il linguaggio che, non dimentichiamolo, era ottimisticamente lanciato dentro la modernità: il suo è un Futurismo svuotato di energia e di convinzione. Nella breve stagione pittorica che va dal 1915 al 1921, si era poi avvicinato al Dadaismo, ma questo non ha fatto di lui una presenza significativa nella scena artistica dell’Italia di quegli anni.

C’è sempre una forbice tra le intenzioni teoriche e gli esiti artistici, e sono probabilmente questi ultimi ad averlo portato alla decisione di smettere di dipingere: una scelta che non si configura nella prospettiva nichilista del dadaismo, ma nella coscienza che con il dadaismo il suo pensiero aveva ben poco a che fare. Aveva confuso il dadaismo con il misticismo e ha dovuto prendere atto che il dadaismo porta con sé esisti nichilisti che mai egli avrebbe potuto condividere.

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