Nel terzo millennio qualcuno ci prova ancora a scrivere il Gan, cioè the Great american novel, il Grande romanzo americano, nell’abbreviazione codificata da Henry James. Ma la definizione di “classico” si è estinta con il tramonto del millennio archiviato.

Rivisitare i classici, se ci si adatta a una creatività di ripiego, è la migliore compensazione che attualmente ci sia consentita. Il trend che domina gli schermi di questo Natale, se ci limitiamo ai tre titoli di più prestigioso richiamo, è un tour guidato di rivisitazione dei classici.

È blasfemia postmoderna equiparare Balzac a Matrix e a West Side Story? Si può contestare il peso specifico e l’influenza che i relativi prototipi – sulla pagina scritta, in pentagramma o in immagini – continuano a esercitare sulla cultura di massa? Perché tre nomi eccellenti del cinema scelgono di ripartire dal “via”, convinti e garanti che – diversamente da quanto accade quando giochi a Monopoli – non sia la sorte degli sfigati?

Il Balzac di Giannoli

Illusioni perdute (uscito in tre parti tra il 1837 e il 1843) è il romanzo-cardine della monumentale Comédie humaine di Honoré De Balzac, secondo l’autore «l’opera capitale nell’opera». È una summa vibrante della società parigina della Restaurazione dopo la caduta di Bonaparte, intorno al 1821, mai retrocessa a scartoffia per topi di biblioteca.

I nomi Rubempré e Rastignac sono ancora sinonimi, nel linguaggio comune, dell’arrivismo senza scrupoli e di scalate sociali che possono riuscire o fallire. Friedrich Engels sosteneva di aver imparato più cose da Balzac che da tutti gli economisti del suo tempo.

Xavier Giannoli si è assunto il grato compito di dimostrare che può insegnare parecchio anche a noi. Illusioni perdute, il film, era in concorso a Venezia ed esce il 30 dicembre con I wonder pictures, dopo le anteprime dal 23 in alcune città.

Adattare 800 pagine sia pure in due robuste ore e mezzo non era una passeggiata. Giannoli però fa una scelta radicale, si concentra sulla discutibile carriera giornalistica del provinciale idealista Lucien De Rubempré e focalizza i meccanismi insidiosi che governano il mondo dell’informazione, ieri come oggi duri a morire. Costumi, arredi e sottointrighi romantici sono da period movie di lusso, ma la materia è di feroce attualità.

L’apprendistato di Lucien (Benjamin Voisin, attore-rivelazione di Estate ‘85 di François Ozon), poetucolo in bolletta sbarcato nella capitale dalla nativa Angouleme, che si illude di dare la scalata all’alta società ma ne verrà stritolato, è una scuola di cinismo e volgarità morale.

La storia occidentale degli ultimi due secoli pullula di aspiranti artisti che accantonano i sogni letterari per adattarsi a forme più alimentari di scrittura. Non tutti sono in fuga da una relazione pericolosa con l’aristocratica patronessa Louise de Bargeton (Cécile De France). Ma soprattutto, oggi, nessuna testata ti assume.

Due secoli fa, in quel 1821, le macchine da stampa stavano inaugurando l’era della disinformazione di massa. «I soldi erano la nuova monarchia, e nessuno voleva tagliarle la testa», chiosa la voce fuori campo, attingendo a Balzac. Le tecniche di manipolazione del pubblico, la corruzione, la concentrazione delle testate, il trasformismo di certa stampa assomigliano (comicamente?) a quelle che conosciamo. Onestà e princìpi non pagano, impara presto Lucien, che adotta il cognome materno per accreditare un pedigree nobiliare. L’informazione è merce, e la stampa un giro d’affari.

I primi rudimenti che instilla al novizio il suo mentore suonano stranamente familiari. «Se non puoi fare favori attraverso il giornale, non esisti». «Per fare una buona recensione, meglio non leggere il libro: potrebbe influenzarti». «Una bufala (“canard”, in francese) e la sua smentita fanno due notizie». «Pagheresti per venderti», dice a un amico giornalista Gérard Depardieu, che nel film è il più potente editore di Parigi, un ex fruttivendolo che non sa leggere e scrivere. Si decreta, a tariffa, il successo o il fiasco di un libro come di uno spettacolo. E a reggere i fili di tutto c’è l’alta finanza, che dal suo Olimpo manipola l’ascesa e il declino delle testate e di chi vi scrive, come burattini.

Ci sono perfino gli antenati dei social: i piccioni viaggiatori, incaricati di diffondere le fake news a velocità d’ali per costruire o distruggere “casi” e reputazioni. Folgoranti battute firmate Balzac sfrecciano a velocità massima. «Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze». E l’ironico aneddoto sul cinismo dei critici (che allora contavano per davvero) quando sul lago Tiberiade vedono avvicinarsi Gesù: «Guarda», dice uno all’altro, «non sa neanche nuotare!».

Già allora, la gratitudine per un articolo osannante (oggi lo chiamiamo con un altro nome) poteva tradursi in compensi più subdoli e sofisticati della vile moneta. E la fortuna mondana di quel parvenu di due secoli fa utilizza questa scorciatoia, passando sui corpi della povera attricetta sessualmente sfruttata Coralie (la fresca e brava Salomé Dewaels) e delle tante pedine incarnate, oltre che da Depardieu, da Jeanne Balibar, Vincent Lacoste e Xavier Dolan, regista di culto ma anche attore, all’occasione.

Il musical di Spielberg

Come in Ritorno al futuro, anche Steven Spielberg si concede un viaggio nel passato e nei suoi modelli. Non può cambiare la storia, ma ha talento e intelligenza sufficienti per cambiare tutto il resto. Inconfutabilmente, il West Side Story di Robert Wise e Jerome Robbins del 1961 è un classico.

Personalmente non l’ho mai trovato un capolavoro, a dispetto dei dieci Oscar, tra cui miglior film e regia, che restano un record ineguagliato per un film musicale. Il vero punto di riferimento per Spielberg però è il musical rivoluzionario del 1957, che per quattro stagioni impose sulle scene di Broadway la violenza sociale suicida e gli slums della gioventù bruciata povera, gli esclusi, gli “unpeople”, da magnifica definizione di Orwell.

Eccelso sovvertitore di coreografie, Robbins fu il deus ex machina, con il libretto di Arthur Laurents e le musiche evergreen di Leonard Bernstein su testi di Steven Sondheim. Sondheim è scomparso da poco, come ricorda grato il regista sui titoli di coda. A consegnare il film del 1961 alla storia fu soprattutto il realismo degli esterni, le strade “brutte” tra la 68a e la 110a ignorate dallo show business mainstream.

So di andare controcorrente, ma la spettacolare rivisitazione firmata dal mago di E.T., in sala dal 23 dicembre, non mi ha emozionato: grandiosa ma esangue. È un debito di antica passione, quello che paga Spielberg. Racconta il suo shock di decenne, quando arrivò in casa il disco del musical.

«A cena mi misi a cantarne un pezzo, Gee Officer Krupke: “Mio padre è un bastardo, mia madre una figlia di buona donna, mio nonno è sempre ubriaco”. I miei rimasero sbigottiti».

Sessant’anni dopo Wise e Robbins, riscrive per passione con Tony Kushner, politicizzandola, la danza tragica di questi Giulietta e Romeo newyorchesi stritolati dalle guerre tra poveri portoricani, gli Sharks, e bianchi poveri, i Jets. Poveri tutti, ma non uguali, perché la barriera razziale rende la polizia bianca più indulgente con i “suoi” ragazzacci di strada.

La gentrificazione è il convitato di pietra di Spielberg: incombe con i bulldozer che spianano i fatiscenti alveari da ghetto, l’espulsione di intere comunità è il prezzo che la municipalità paga alla costruzione di Lincoln Square per i nuovi privilegiati.

Sono quinte da teatro di guerra, ma sono iperrealtà vissuta. I Capuleti e i Montecchi sottoproletari sono vittime della stessa speculazione immobiliare, della stessa mannaia del profitto cieco: un Fato di solido portafoglio bancario.

Sarebbe da sciocchi sottovalutare le scelte radicali compiute da un autore che gira il primo musical della sua vita come se non avesse fatto mai altro in vita sua. Se il film finisce per annoiare, non dipende da lui, ma da una “gabbia” originaria troppo rigida per non condizionare.

Per fatalità, l’anello debole del nuovo West Side Story è lo stesso del capostipite: nel ruolo di Tony – lo sfortunato Romeo – il Richard Beymer di Robbins e Wise era inconsistente quanto è belloccio e inespressivo questo Ansel Engort di oggi, col suo faccino da dieci in condotta. Misteri del casting: se ha scontato un anno di carcere, dovrebbe avere una innocenza più accorta.

L’effetto Tony (o meglio il non-effetto Tony) toglie qualsiasi pathos alla scena madre da balcone scespiriano, quando tra scale antincendio e panni stesi a festoni esplodono le note immortali di Maria e Tonight.

Il vecchio classico aveva waspizzato il cast. Spielberg corregge politicamente, mette veri latinos al posto di attori e ballerini caucasici truccati, li fa parlare spagnolo senza sottotitoli, inserisce battute sulle patrie galere ingolfate di gente di colore. Natalie Wood, portoricana improbabile, era oggetto di un culto a parte, ma fu doppiata nel canto (come Beymer e come Russ Tamblyn).

Con meritorio rigore, Spielberg affida la sua Maria a un’esordiente fresca e credibile, Rachel Zegler, che però canta – da soprano, e anche bene – come la Cenerentola del cartoon Disney. Non si pretende Amy Winehouse, ma svecchiare gli standard?

Rita Moreno, premiata con l’Oscar da non protagonista sessant’anni fa (insieme a George Chakiris, che è il mio ricordo più indelebile del vecchio film) fa da ponte con il passato, e un Oscar bis per la novantenne che è oggi sarebbe da annali.

Tutto lo spirito vitale del film si concentra però sul portentoso Mike Faist, che è Riff, leader dei Jets, e sull’esplosiva Ariana DeBose, una Anita emblema di orgoglio femminile conquistato degno della leggendaria Think che Aretha Franklin intonava in The Blues Bothers. Le mancano solo quelle pianelle rosa scolpite nel nostro immaginario.

La lista delle benemerenze – dovuta – finisce qui. Perché lo sviluppo drammaturgico del classico è inesorabilmente datato. E quando perde il fiato libertario delle strade anche l’arte di tanto regista paga dazio alla rigida geometria coreografica: confrontare per credere la sfida del ballo in palestra (dove Tony e Maria hanno il colpo di fulmine) con il rock ‘n roll scatenato di 1941: Allarme a Hollywood.

Il ritorno di Matrix

Terzo classico rivisitato, in chiave ancora diversa, è il Matrix del 1999 (nel titolo inglese c’è un The prima del nome). Appartiene di diritto alla mitologia del Novecento: è vero che il suo universo invertito, con larve umane a fornire energia, ha ridefinito un intero genere.  

Lana Wachowski scioglie il sodalizio artistico delle più visionarie sorelle registe transgender in circolazione e firma in solitaria Matrix Resurrections, che esce il 1 gennaio giusto per irrorare il 2022 di sana ironia autoreferenziale.

Da sola, in realtà – ma con lo stesso team creativo – ci aveva già consegnato una serie di culto come Sense8, quella che Zerocalcare in Strappare lungo i bordi si tiene eternamente in serbo aspettando l’umore e la giornata “su”.  

Il quarto capitolo del franchise arriva a diciannove anni da Matrix Reloaded e Matrix Resurrections, scritti e diretti dai Wachowski quando ancora si chiamavano Larry e Andy. L’attesa è direttamente proporzionale agli incassi totalizzati finora dalla trilogia: un miliardo e 624 milioni di dollari, arrotondando.

Più che un sequel, questo è un reboot, come dire un riavvio dal punto di partenza. Rinfrescato il bugiardino del prodotto, dico la mia sull’effetto che la resurrezione di Keanu Reeves-Neo e di Carrie-Anne Moss-Trinity produrrà anche tra chi ha storto il naso sulle sbrodolature del 2 e del 3: caos prelibato per gli iniziati, per i neofiti una voragine in cui è dolce naufragare, rinunciando al navigatore automatico.

Tra Reeves e i padri/madri dell’icona cyberpunk Thomas Anderson c’è un patto di ferro: sepolte – letteralmente, per conclamato decesso – le iperboliche prodezze marziali del suo hacker condottiero, l’attore si è rimesso a disposizione solo con la garanzia che non si cambiasse manovratore. Qualcuno è caduto per strada senza rinascere, come Laurence Fishburne (Morpheus) e Hugo Weaving (l’Agente Smith). Ma alla regista non fa certo difetto la fantasia per escogitare sostituzioni tortuosamente plausibili.  

Quello che conta è ricominciare daccapo, spiattellando per celia mille verità dietro la finzione. Ossia: Matrix è un videogame, la casa madre Warner brothers ha deciso di dare un seguito alla trilogia, Reeves si era opposto al numero 4. Tutto questo è in sceneggiatura: demenziale ma esilarante. Il team creativo del videogame spara le banalità scritte dai critici nelle recensioni del film: «È una metafora del capitalismo», e all’opposto, «non ho mai sopportato i giochi cerebrali». Sempre in sceneggiatura: «Non può essere un altro reboot! Perché no? I reboot vendono!». 

Il proverbiale “déja vu” della saga, spia della doppia realtà, qui è il nome di un gatto. Lana Wachowski si trastulla accavallando immagini dai primi film (con il vantaggio incidentale di un bel risparmio di girato) perché «niente placa l’ansia come la nostalgia». Vale, ovviamente, per lo spettatore in crisi d’astinenza. Il sottotitolo di questo ritorno potrebbe essere «suonala ancora, Sam». I portali tra reale e irreale, le pillole rosse e blu, il guardaroba dark da défilé hypster, la moto di Trinity di nuovo protagonista, in una sequenza d’azione da antologia: tutto torna, ma in loop.

Presupposto fondamentale: anche l’eroe e l’eroina devono ripartire da zero, da perfetti sconosciuti. Ritrovarli dopo un ventennio con i corpi maturi e belle facce non botoxate, coi segni del tempo, rassicura come infilare un vecchio paio di pantofole comode: come ognuno di noi, sono invecchiati anche loro.

Il colpo d’ala consiste nel sovvertire le massime auree del cinema Made in Usa: la famiglia non si tocca, nessuna mamma rinuncerà mai ai suoi bambini, il suprematismo maschile vale anche per i superpoteri. Ma spoilerare sarebbe un delitto.

Rubo le ultime parole del film per tirare le fila. Perché no, dopotutto? Diamo ai classici un’altra chance.

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