Se non fosse morto due volte, Marco Pantani starebbe per compiere cinquantaquattro anni, e ogni tanto qualche antico cronista andrebbe a trovarlo per un’intervista nella bifamiliare gialla che si era fatto costruire fuori Cesenatico dopo il trionfo al Tour. E magari lui lo porterebbe in garage, e ci sarebbero ancora le biciclette attaccate al muro e il cavalletto da pittore. Era lì che Panta assecondava i suoi due talenti, quello conclamato per la salita e quello meno popolare per la pittura. Non glieli aveva insegnati nessuno, erano doti naturali. Non c’entravano i suoi direttori sportivi: hanno sempre raccontato che andava su con una facilità disarmante anche da piccolo. E non c’entrava nemmeno la maestra Neri, quella che con un guizzo nella pagella di seconda elementare scrisse che Marco era «pronto nella drammatizzazione».

Se l’interpretazione pessimistica dei fatti è sempre stata nelle sue corde, è anche vero che la trama di Pantani - in vita e certamente anche in morte - sembra immaginata da un grande tragico. È questo che ci cattura ancora oggi di lui, che a San Valentino saranno vent’anni dall’ultima volta che è morto: la sua - pur nell’esagerazione che si conviene a un fuoriclasse - era una vita imperfetta come le nostre, di quelle che un giorno cadi e il giorno dopo devi rialzarti, ti fai male, ti rimetti in piedi, vinci e non hai neanche il tempo di alzare le braccia, dura troppo poco quell’attimo che credevi ti avrebbe cambiato per sempre, vinci ma più spesso perdi. Poi un giorno basta, muori. Se sei Pantani addirittura due volte.

Il sangue a Madonna di Campiglio

La prima era il 5 giugno 1999, in una stanza dell’hotel Touring di Madonna di Campiglio. Lo svegliarono la mattina presto per il prelievo, e poi gli dissero che il suo sangue non andava bene e il mondo del corridore più famoso, dello scalatore che soltanto un anno prima aveva domato Giro e Tour, andò in frantumi, come lo specchio che Pantani spaccò per la rabbia. Sette anni di cattiva sorte, dice la tradizione, a lui ne bastarono cinque.

La seconda volta era il 14 febbraio 2004, un’altra stanza di un lungo corridoio, quella di un anonimo residence di Rimini. Marco Ciriello, nel libro che è appena uscito per Sperling & Kupfer, «Marco Pantani alto sui pedali», scrive che la sua morte a San Valentino è paragonabile in tristezza a una scena che tutti abbiamo visto, «Alberto Sordi che in un’altra Rimini, vestito da clown ne I vitelloni di Federico Fellini, piange all’alba dopo la festa di Carnevale, sempre d’un febbraio, ma più lontano nel tempo». Pantani cadeva e si rialzava, vinceva e si perdeva, «un andirivieni che solo i bambini possono accettare, o gli innamorati». La prima volta che è caduto Marco non era neanche nato: la Tonina era incinta, stava andando a fare la spesa in bicicletta con la Manola sul seggiolino, e all’improvviso erano volati in terra tutti e tre, ma lui che era nella pancia non si era fatto niente. Tutte le altre volte si è fatto molto più male. E l’ultima volta che è caduto lo sappiamo tutti.

Un mito già da vivo

Eppure non è stata la sua morte precoce a fare di Pantani un mito. È durato poco, come James Dean e Jim Morrison, ma non è per quell’angosciante finale che ce lo raccontiamo ancora, non è per quello che Pantani è diventato film, canzoni, racconti, documentari, romanzi, inchieste, spettacoli teatrali. Chi lo ha conosciuto ricorda perfettamente che Panta aveva una sorta di aura anche da vivo, con la sua curiosa miscela di fragilità e di irraggiungibilità, la sua diffidenza e il suo carisma, il suo modo sfacciato di parlare di sé in terza persona e i rari momenti in cui si abbandonava a immaginare il dopo. Un figlio, diventare grandi, sua mamma Tonina, «fai la brava, che dovrò badare a te quando sarai vecchia», e invece no. Sarà un caso, ma il ciclismo non c’entrava mai in quegli squarci di futuro.
Pantani ha vinto meno di Merckx (tutti hanno vinto meno di Merckx), meno di Pogacar, anche meno di Nibali. E allora perché parliamo e scriviamo ancora di Pantani dopo vent’anni? Perché era un’altra cosa, suggerisce Ciriello. Perché «noi col campione attendiamo anche lo stupore della vita, e la vita oggi sembra uguale a Instagram: non ne vuole sapere di sudare, sporcarsi, cadere. L’ultima carità di una pedalata differente, ecco cosa aspettiamo e non troviamo, e che Pantani ci ha dato fin da subito».

Oggi Pantani è diventato parte del corredo di ogni salita. Vai a vedere un tappone, ti piazzi sul punto con la pendenza più dura e issi sul camper la bandiera col teschio del pirata. Vai a scalare un passo magari con la e-bike ma se hai la bandana in testa fai la tua figura lo stesso. C’è scritto Pantani Pantani Pantani nei punti più difficili di qualsiasi salita, e corridori che quando Marco è morto dovevano ancora nascere dopo il traguardo ammettono di avere pensato a lui. Sulla sua tomba, a Cesenatico, ci sono i disegni dei bambini, a cui la storia viene tramandata, e loro lo dipingono ancora a braccia alzate, e a bordo strada c’è sempre la neve. Non ci sono camere di albergo, né grida d’aiuto scritte su passaporti che non serviranno più. L’onta è passata, è rimasta l’epica. Panta sul Galibier, in mezzo a centinaia di cavallette, Panta sul Ventoux, che un po’ gli somiglia così pelato, sul Tourmalet, sull’Alpe d’Huez. Sulla Marmolada, che la prima volta se l’era fatta spiegare da Roberto Conti, romagnolo come lui, dimmi com’è ‘sta famosa Marmolada, e Conti gli aveva detto che è proprio dura, e lui lo aveva messo davanti a tirare, «dimmelo quando ci arriviamo». E Conti tirava, tirava: a metà della salita, stremato, si voltò a guardare Marco per vedere se avrebbe attaccato, «era lì tranquillo e mi fa: oh, ma quando inizia ‘sta Marmolada?».

La biglia

Racconti di racconti di racconti. A Panta, che in greco vuol dire tutto, le storie le raccontava suo nonno Sotero, che in greco vuol dire Salvatore, e se Pantani ha mai avuto un mito quello era lui. Che lo portava a pescare sul molo e potevano stare un giorno intero senza dirsi una parola. Però la sera gli raccontava: anche il ciclismo, anche i campioni. Marco era già morto quando la Tonina trovò fra le sue cose un biglietto giallo con la calligrafia di bambino. «Spero un giorno di diventare un campione come Saronni». Quando ci mettiamo sul punto più duro della salita e immaginiamo ancora di vederlo sbucare dietro la curva, vogliamo soltanto ritrovare chi ci raccontava le favole quando eravamo piccoli, e tutto sembrava ancora possibile. Teschi, bandane, brutte statue di bronzo sulle salite, busti, stele, e quando lo evochiamo lui arriva, «come un popolo estinto di cui restano le rovine, la lingua, i gesti, le battaglie, l’arte, i manufatti e le tombe». Il più bello dei monumenti non è neanche in salita, l’hanno messo nel cortile della Mercatone Uno, è quello che si vede dalla A14, l’autostrada che porta al mare, all’uscita di Imola. Panta è dentro una gigantesca biglia, di quelle che avevamo da bambini per giocare sulla spiaggia. E lui è lì, eternamente in maglia rosa, in piedi sui pedali, le mani sul manubrio, a ricordarci quanto ci siamo divertiti.

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