Esistono libri fatti apposta per forzare i limiti, per mescolare i generi, per confondere le carte. Pianura, di Marco Belpoliti (Einaudi) è uno di questi. Non per niente, nel corso del capitolo Romagna solatìa (dove «Romagna non sta per Roma, ma per il suo fantasma»), uno studioso locale spiega come i confini di una simile, indefinita regione si spostino e mutino da molto tempo. Lo stesso si potrebbe dire di quest’opera, smarginata, danzante, il cui autore, studioso di Italo Calvino oltre che di Primo Levi, ha scritto anche sugli anni Settanta e su Berlusconi (Il corpo del capo), occupandosi di grafica e insieme dirigendo la rivista online Doppiozero.

Luogo misterioso

La pianura del titolo è ovviamente quella padana, centro geografico e produttivo del paese, che tuttavia in queste pagine finisce per diventare piuttosto «un’ipotesi, un oggetto misterioso, un teatro a cielo aperto di malinconie e fantasmi». Memorabile l’incipit: «Piatta è piatta. Su questo non c’è alcun dubbio». Il finale, però, non è da meno: «Bisogna stare schisci, come si dice a Milano, schiacciati a terra, per non farsi vedere. Così abbiamo fatto per secoli; la ragione […] risiedeva nella necessità di non farsi scorgere dai popoli e dalle genti di passaggio, dai barbari che scendevano la pianura e la razziavano. Non dovevamo farci notare, nascondere anche quel poco che avevamo, se volevamo sopravvivere, e così è stato per mille anni e oltre. Bassa è sempre bassa, anche se noi siamo diventati di generazione in generazione, sempre più alti. Ma è stato un caso, un fatto fortuito. Lei sta rasa a terra per necessità e per modestia».

Erodoto, Strabone… sulla traccia dei grandi modelli classici dell’antica Grecia, Belpoliti si fa storico e antropologo, etnografo e geografo per dedicarsi all’esplorazione di un luogo misterioso. Attenzione, però: non siamo più alle prese con lo sterminato universo dei barbari che circondava la civiltà ellenica. Qui accade l’esatto contrario: ora le terre da percorrere, studiare ed esaminare sono quelle più private, che non devono il loro fascino all’ignoto, bensì al noto; non al segreto, ma al familiare; non all’elemento esotico, ma a quello domestico. Il tutto, seguendo un criterio niente affatto lineare.

Libro trasversale in maniera addirittura paradigmatica (e non per niente edito nella collana einaudiana dal nome Frontiere), questo autentico iconotesto costeggia gli antichi album di disegni, anche se allude apertamente all’adorato Saul Steinberg. Proprio l’artista americano apre infatti le danze con una citazione esemplare: «Se la mia vita o la tua o di altri fosse tradotta in architetture chissà che costruzioni incredibili, mancanza di logica, spreco di materiali, equilibri per miracolo, terreni sbagliati». Ma è la padania un terreno sbagliato?, verrebbe da chiedersi. Dipende.

Opera documentale

Intanto, per passarlo al setaccio, Belpoliti ricorre ai più svariati strumenti del mestiere, muovendosi a cavallo tra saggio e memoir, racconto e reportage, lettera e taccuino di viaggio. È un testo redatto in prosa, sebbene, come si è detto, accompagnato da illustrazioni – ritratti, piantine di città, mappe e percorsi, riprodotti addirittura sul retro della copertina rigida, sia in quella di apertura, sia in quella di chiusura. Il tutto, concluso da un singolare “eccetera” vergato a mano, giusto sull’ultima pagina, prima dei riferimenti bibliografici (indispensabili in un’opera documentale) e delle più sorprendenti fonti musicali.

Il motivo di questa seconda sezione è evidente, dato che alcune delle canzoni dei gruppi Cccp e dei Csi, tra cui la significativa Emilia paranoica, occupano una parte importante del volume. Toccante il passo in cui l’autore vede nell’amico cantante, Giovanni Ferretti, un discendente dei Liguri, genti orgogliose, sconfitte dai romani e note per la loro voce stridula: «Per quanto Giovanni parli in modo spedito, penso che la sua voce possegga qualcosa di tartagliato, un’incertezza, che è quella che l’amica ha definito disperazione».

E adesso ci viene incontro un altro importante concetto psico-storico. Mi riferisco al “magone”, o ansiosa malinconia, quella speciale forma di dispiacere tipica degli emiliani. Il termine risulta indissolubilmente legato alla figura di Pier Vittorio Tondelli, scrittore del magone, appunto. Eppure, minuzioso, Belpoliti precisa: «Conosco un valdostano che ha una spiccata inclinazione per il magon; ma è un caso più unico che raro. Ci sono anche quelli. Sono emiliani onorari e io gli sono amico».

Questo, ovviamente, ci porterebbe dritti ad affrontare il mondo della famiglia, degli amici, con tanto di nonne e zie. In primo piano, appaiono gli affetti più vicini, da Luigi Ghirri, fotografo della nebbia, a Gianni Celati, «ragazzo» e instancabile camminatore, fino a Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati.

Basta arretrare appena un poco, per incontrare poi John Berger (in un cui libro, Sacche di resistenze, si trova un capitolo dedicato al Po), Michelangelo Antonioni, Ernst Gombrich, Piero Camporesi o Antonio Delfini. Così, almeno, procederebbe un libro di ricordi. Le cose, invece, vanno in modo diverso, ed è proprio questo genere di sfasature a imprimere al volume un ritmo inatteso.

Un pezzo d’Africa

Dunque, mentre si parla di magone, Belpoliti, di colpo, rilancia, buttando sul tavolo da gioco una fiche spropositata: pare cioè che il fratello del grande Annibale, che lo seguì eroicamente durante l’invasione dell’Italia, si chiamasse Magone… Da qui una variazione sorprendente, ma non del tutto inattesa per un lettore attento. Intanto, troviamo un intero capitolo, Liguri, dedicato alla simpatia che lo scrittore confessa di aver sempre nutrito per i Cartaginesi, in quanto popolo sconfitto dai Romani. Belpoliti non esita ad ammettere che si tratta di pure farneticazioni, ma non bisogna affatto dargli retta, poiché Pianura si apre appunto con alcune appassionanti pagine su Cartagine.

Il primo capitolo, infatti, suona: «Il danese e le centurie», e racconta la scoperta di un legame inatteso tra la Padania e Cartagine, rivelato appunto da un militare danese attivo durante le campagne napoleoniche. In breve, le due zone tanto distanti (e insieme tanto empatiche) sarebbero entrambe segnate dalle medesime linee divisorie dovute alla cosiddetta “centuriazione” romana, ossia alla ristrutturazione del territorio per appezzamenti dello stesso taglio. Strano, commenta l’autore, che per descrivere la forma di questa «geologia del sopra» occorra «ricorrere all’altrove».

La pianura come La mia Africa di Karen Blixen, allora? C’è poco da scherzare, perché, spingendo il gioco ancora oltre, il testo ricorda come la faglia africana si arresti giusto contro la Romagna. Dunque, questa regione non sarebbe altro che «un pezzo d’Africa staccatasi in epoche remotissime dal continente conglomerato iniziale, per dare vita a quello che c’è oggi».

Storie armene

Insomma, sin dalle prime battute, ogni elemento di storia locale risulta completamente rovesciato. Di conseguenza, non si rimane troppo stupiti incontrando un capitolo che, invece del prevedibile “Lugo di Romagna”, si intitola Lugo d’Armenia, per concentrarsi su un personaggio affascinante come l’artista visivo e regista cinematografico Yervant Gianikian, il cui padre era sfuggito a piedi dal massacro dei turchi.

Guerra, musica, disegni. Ho però tralasciato un dettaglio, non troppo appariscente, benché a suo modo rilevante. Pianura, infatti, ha un indice in cui i titoli di ogni capitolo appaiono collocati, senza ordine apparente, sotto quattro grandi categorie temporali: estate, autunno, inverno, primavera. Questo per dire come, in questa autentica “Enciclopedia della Bassa”, la natura giochi un ruolo fondamentale, e la scansione stagionale arrivi a dare forma all’intero volume. Per concludere, tuttavia, tornerei alle storie armene, che terminano sempre con un messaggio rivolto al pubblico, lo stesso che, a modo suo, ci vuole indirizzare Belpoliti: «Dal cielo cadono tre mele: una per chi ha narrato questa storia, una per chi ha ascoltato e una per chi ha capito».


Marco Belpoliti è autore del libro Pianura, edito da Einaudi

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