Come in un episodio di Law & Order, Special Victims Unit? No, di più. Molto di più. Anche se il testo potrebbe benissimo dar vita a una delle puntate della serie tv più longeva al mondo. Ma la profondità che il linguaggio del teatro riesce a raggiungere non è comparabile a quello della tv, per quanto meritoria.

Nei soli 50 minuti scarsi di un episodio, nemmeno l’attrice-produttrice Mariska Hargitay, che pure è stata oggetto di violenza sessuale, l’Olivia Benson che sacrifica la sua esistenza nel tentativo di assistere chi di quelle molestie è stata vittima e di far condannare chi ne è stato l’autore, sarebbe riuscita a rendere ciò che l’autrice australiana Suzie Miller racconta nella pièce Prima facie, già rappresentata in tutto il mondo, la cui versione italiana ha debuttato mercoledì alla Sala Umberto di Roma per restare in scena fino a domenica.

L’attrice Melissa Vettore, che interpreta la protagonista, l’avvocata penalista Tessa Ensler (lo stesso cognome di Eve, l’autrice dei Monologhi della vagina: difficile non cogliere il desiderio di recepire quell’eredità) si rende protagonista di una prestazione massacrante per sé stessa e sfidante per chi assiste: due ore di monologo strutturato in 18 quadri che trascinano lo spettatore in una realtà da cui, magari, istintivamente vorrebbe fuggire ma che invece lo tiene incatenato alla poltrona. E non per, hollywoodianamente, scoprire chi è il colpevole di un giallo che non esiste; ma per la fatica obbligatoria di immergersi nel nero di una situazione in cui il male, banalmente, si rivela in tutto il suo orrore.

Rovesciamento dei ruoli

Potenza del teatro, certo. Ma qui c’è di più. Un più che mai riuscirebbe a emergere in un episodio di una serie tv. Un’avvocata penalista raggiunge un discreto e gioioso successo occupandosi di casi di violenza sessuale, rivelandosi bravissima nell’interpretare la difesa degli accusati. Interpreta al meglio il concetto di realtà processuale: il pm accusa, l’avvocata difende, il giudice sentenzia. La realtà, tutto sommato, resta fuori dalla porta perché ciò che conta è l’interpretazione di quella realtà, quella che alla fine risulta più convincente.

Ma la realtà vera entra nella vita di Tessa col volto di un collega di lavoro con il quale inizia una relazione che si trasformerà in trauma. Un doppio trauma: quello conseguente allo stupro e quello di vivere il ruolo della vittima lasciando il tesserino da avvocato a casa e sedendo sul banco dei testimoni.

Vettore, il cui eloquio contraddistinto da pronunce delicatamente scorrette (è nata in Brasile) non fa altro che aggiungere spessore al personaggio, non porta lo spettatore (soprattutto il maschio) sul palcoscenico: lì c’è l’unico altro protagonista vivente della rappresentazione, un uomo col volto coperto da una veletta che crea la scenografia in silenzio, muto testimone di un reato davanti al quale troppe volte, nella storia, si è girato dall’altra parte quando non ne è stato l’autore.

Vettore salta sulle ginocchia dello spettatore, lo guarda negli occhi senza mostrare astio o aggressività, ma costringendolo a non pensarsi non coinvolto. La serie americana avrebbe collocato lo stupro, chissà, in un vicolo di Brooklyn o nei meandri di un college. La scelta di Miller è spietatamente semplice: lo stupro avviene nel corso di quella che era nata come una notte di passione fra innamorati. Il terreno più perfido, più scivoloso. Perché costringe chi guarda a interrogarsi su come un «no» abbia la stessa inderogabile perentorietà ovunque sia pronunciato: anche nel letto dove si è guidato e accolto il partner.

Se urlare una verità non basta

“Prima facie” è un’espressione giuridico latina che indica ciò che appare a una prima impressione e che in un’aula di tribunale può essere quasi impossibile confutare, anche da chi è esperto di tecnicismi e strategie. Nello spettacolo ci si imbatte pure nel voir dire, un altro termine processuale che milioni di persone hanno imparato a conoscere in Bull, un’altra serie legal di grande diffusione: di giurati o testimoni viene analizzata l’attendibilità. Il voir dire di Tessa è il passaggio in cui il dolente incedere verbale della protagonista va più nel profondo denunciando come proprio la verità, quella che il procedimento dovrebbe appurare, ne sia in realtà l’ospite quando di mezzo ci sono i reati di natura sessuale.

Difficile non pensare a Franca Rame nei panni di Tessa. Lei che lo stupro lo patì per mani dei fascisti. E la performance di Vettore richiama alla mente quella di Paola Minaccioni in Elena la matta: la storia della donna che cercò di avvertire gli ebrei del ghetto di Roma della razzia di cui sarebbero stati vittime il 16 ottobre del ’43.

Ma anche in quel caso urlare la verità non fu sufficiente a garantire il riconoscimento della verità stessa. Due storie, due attrici e una domanda che ancora non ha risposte definitive: che deve fare una donna per essere creduta?

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