“Il Conclave? E certo, l’abbiamo inventato noi!”. 

È facile leggere nel pensiero dei viterbesi, dietro all’espressione disincantata e sorniona che portano in giro per le vie strette e cariche di storia, cinte da mura che hanno resistito al passaggio di eserciti imperiali e alle bombe della seconda guerra mondiale.

Se nelle conversazioni ai crocicchi o tra una scrollata e l’altra sullo smartphone fa capolino la parola fatidica degli ultimi giorni, delle ultime ore, state certi che un luccichio negli occhi o un’increspatura di labbra compariranno fugacemente sul volto di chi si tramanda di generazione in generazione l’orgoglio di aver scoperto la formula ineludibile per dare alla Chiesa cattolica un successore di Pietro.

Sbucando da via San Lorenzo sulla piazza omonima si ha subito l’impressione che da queste parti sia successo qualcosa di epocale. Se infatti il campanile e la facciata della Cattedrale si scorgono da lontano, è solo svoltando l’angolo che si apre la prospettiva che guida lo sguardo al Palazzo dei Papi, alla merlatura guelfa sui grandi finestroni, alla larga rampa di scale che porta verso l’alto, alla loggia civettuola sorretta da coppie di colonnine tanto filiformi che paiono star su davvero per grazia di Dio a sorreggere pietre e cielo. E in fondo anche quella che si tramanda da oltre 750 anni è una storia di pietre e di cielo.

Cardinali prigionieri

Il 29 novembre 1268 papa Clemente IV muore a Viterbo, dove da un decennio si è trasferita la Curia pontificia a causa di una crescente ostilità sorta tra Alessandro IV e popolo e nobiltà di Roma.

Gregorio X

Nel capoluogo della Tuscia si ritrovano 19 cardinali chiamati a eleggere il nuovo pontefice e fin da subito si capisce che accordarsi non sarà facile. Non tanto per divergenze dottrinarie, ma per veri e propri conflitti geopolitici.

Esattamente un mese prima della morte di Clemente IV, Carlo D’Angiò aveva fatto decapitare a Napoli il sedicenne nipote di Federico II, Corradino di Svevia, decretando la supremazia francese sull’Italia. Un’esecuzione che aveva mosso sentimenti di sdegno anche tra gli ecclesiastici. Ragion per cui l’elezione di un papa francese o troppo ben disposto verso gli angioini era osteggiata da una metà del collegio cardinalizio.

Mai come prima e dopo, Viterbo diviene il centro del mondo, il baricentro di giochi di potere e il pulpito di accorate esortazioni spirituali. I cardinali, all’inizio, discutono e votano nella Cattedrale, senza esito. I mesi passano, l’attesa cresce e soprattutto accanto all’onore di un tale frangente solenne, crescono gli oneri: quelli relativi al mantenimento dei porporati e delle tante piccole corti che ciascuno porta con sé.

Finché il capitano del popolo Raniero Gatti prende l’iniziativa: il primo giugno 1270, dopo un anno e mezzo di sede vacante, ordina la chiusura delle porte della città e il trasferimento coatto dei cardinali nella grande Sala del Palazzo Papale, con l’avvertenza che non usciranno di lì fino a quando non avranno scelto il nuovo Papa.

In quel momento nasce il Conclave: con la chiave di Raniero Gatti viene sancita la prigionia nel santo ufficio a cui sono stati chiamati dal Signore i cardinali. Lo raccontano ancora, con un misto di superbia e nonchalance, i viterbesi ad amici e conoscenti che capitano in città: passeggiando per le strade che videro la predicazione di santi tenaci come la giovane Rosa o il dotto Bonaventura, si ritorna in quel luogo e in quel medioevo che in questa città non si può dire davvero terminato.

E nel Conclave che accade? Passano alcuni giorni infruttuosi e Gatti decide di ridurre le porzioni di vitto. Ne passano altri e per mettere ancora più pressione si scoperchia il tetto della Sala, come ricorda una pergamena che fa bella mostra di sé nel luogo che ospitò la storia. Stando agli ultimi studi, i cardinali furono esposti al sole e al cielo solo poche settimane, quindi venne concesso loro di occupare le altre stanze del Palazzo, ma da cui comunque non potevano uscire.

L'assassinio di Enrico di Cornovaglia, Giovanni Villani - Nuova Cronica - ms. Chigiano L VIII 296 - Biblioteca Vaticana

Trascorre ancora un altro anno, segnato dalla morte di un re santo – Luigi IX di Francia – nel corso dell’ottava crociata; e nel transito delle sue spoglie da Viterbo, nel cammino verso la patria, avviene la sacrilega uccisione sull’altare della chiesa di San Silvestro, trafitto dalla spada del cugino Simone di Monfort, di Enrico di Cornovaglia, nipote del re d’Inghilterra: quel “cor che 'n su Tamisi ancor si cola” citato da Dante nel canto XII dell’Inferno.

Memoria indelebile

La storia volge al termine: il primo settembre del 1271 i porporati designano una commissione ristretta a sei delegati per eleggere il nuovo papa e in poche ore l’accordo viene trovato. La scelta ricade su Tedaldo Visconti, nobile piacentino e chierico minore, noto per onestà e nobiltà d’animo, in quei giorni impegnato al seguito del re Edoardo I d’Inghilterra alla nona crociata.

Dopo 1006 giorni, dopo la sede vacante più lunga di sempre, la Chiesa e il mondo hanno un nuovo Papa. Ci vogliono altri mesi, siamo al 27 marzo 1272, perché Tedaldo venga incoronato col nome di Gregorio X. Il quale, con la Costituzione apostolica “Ubi periculum” del 1274 formalizza nella sostanza le procedure attuate da Raniero Gatti.

La sala del conclave di Palazzo dei Papi. Di Sailko - Opera propria, CC BY-SA 4.0

Come fecero allora i principi della Chiesa, oggi salgono i 22 gradini della grande scalinata del Palazzo dei Papi turisti, pellegrini e scolaresche –  anche viterbesi, perché la memoria comune segni il territorio interiore dei figli di questa terra fin dall’infanzia –  per accedere allo spazio che racchiuse un evento dello Spirito aiutato dalla premura umana.

E se la Cappella Sistina con la magnificenza abbacinante degli affreschi michelangioleschi offusca la nuda severità della Sala del Conclave viterbese, giova ricordare che sui lastroni ondulati e tra le mura spoglie di questo ambiente si avverte forse meglio la gravità del compito di chi deve trovare un uomo a cui consegnare un ministero duro come la pietra – non per nulla petrino – e desideroso di un cielo che travi e tegole celano alla vista.

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