La maestosa scalinata di un palazzo di giustizia, un’avvocatessa che attende il suo cliente, in ritardo. La sua cliente, giovane donna, braccio alzato, eccola. «Yole! Ce l’hai fatta, stavo per entrare senza di te». E poi: «Sono contenta che hai accettato il mio consiglio di vestirti più femminile. Ricordati che il giudice deve crederti pronta per il matrimonio».

E infatti Yole, ubbidiente, al cospetto del giudice che deve decidere se può finalmente diventare sé stessa, dichiara: «Dopo essermi operata vorrei laurearmi, anche se non ha molta importanza dato che voglio diventare mamma, sposarmi, badare alla casa». «Perfetto» – decretano giudice e pubblico ministero: «Yole è femmina».

Uscite dal tribunale, l’avvocatessa la incita a festeggiare: «Te lo meriti!». Segue sprofondamento in una radura buia che ricorda quella di Biancaneve in fuga dalla matrigna, solo che gli occhi scintillanti, feroci, non appartengono ad alberi ma ad adulti, maschi affamati, che le sussurrano in loop: «Come siamo carine», «Che ti farei», «Puttana, ti stupro, non meriti niente».

Josephine, Yole, P., Colombella, Scarabocchio, Stella, la ragazza della porta accanto: chi sei, chi siamo? Le tavole di Fumettibrutti, da poco in libreria col suo terzo libro, Anestesia (Feltrinelli Comics), sono lo specchio fatato di Josephine Yole Signorelli, lo specchio magico in cui la fumettista siciliana, bolognese d’adozione, si vede riflessa, si lascia riflettere, a mo’ di caleidoscopio dell’identità, in tutte le forme che non stanno, non possono stare nei discorsi già dati, nel punto di vista centrale, centrato sull’opposizione binaria maschile/femminile, bambino/adulto, purezza/peccato.

Su quei discorsi – inadeguati, asfissianti – lei ci disegna sopra, raccontando, continuando a raccontare, dopo Romanzo esplicito e P. La mia adolescenza trans, le tante versioni di quell’unica storia, la sua.

In fuga dalla terra natale

In fuga dalle strettoie della terra natale e della sua famiglia – e da un amore perfetto e sbagliatissimo, tossico non solo in senso metaforico – Josephine fa tutto di fretta: cambia città, cambia sesso. Corre, inciampa, viene scarnificata, mutilata, è finita? Per nulla – torna in piedi, riprende ad andare, spinta da cosa non si sa: incoscienza, delirio, fede nella bontà del destino. Si potrebbe dire un martirio contemporaneo atto a testimoniare la fedeltà a sé stessi: molto meno, molto di più. Sente tutto, non sente niente, Josephine – anestesia. Sembra un ragazzo, poi si rivela ragazza, diventa studentessa di arte sfrattata, entraîneuse, paziente umiliata, amante bulimica, madre dei suoi genitori: traccia sé stessa, fuori e dentro i fumetti che crea, e ci accompagna, a volte tenendoci per mano, più spesso tirandoci per i capelli, a sondare i confini del nostro senso del bene e del male, del desiderio e del riprovevole. E insieme, tra le righe, o le vignette, insinua in noi il dubbio: viviamo la vita che abbiamo scelto o ci accontentiamo di una variazione sul tema del già visto? Abbiamo il coraggio di non distogliere lo sguardo da questa domanda?

Quelle di Josephine/Fumettibrutti sono piccole, nervose stenografie dai mari estremi, in cui ci si imbatte nell’oltraggio di uno sguardo che resta minuscolo, bambino, eppure intercetta il sesso, il dolore, la droga, il suicidio. Le cose prime, le cose ultime. Una bambina spudorata e onnipotente che scaraventa sotto i nostri occhi il suo personalissimo itinerario nella vergogna, e l’esorcismo di questa, all’interno dei margini occultati – banditi – della visuale comune. Lì dove non si dice, non si può dire.

I disegni, i fumetti, sono l’oggetto magico con cui Josephine nata P. è riuscita a restare al mondo, o si è rimessa al mondo. Il suo stile – osannato, criticatissimo – è adesione diretta alla materia narrata, che piega la forma. Un circuito di segni e parole verso sé stessa pieno di accelerazioni e arresti, di spazi vuoti e affollamenti, una parabola per nulla edificante eppure esemplare. Perché Josephine decide da sé la sua forma, la sua idea di armonia, rifiutando quella auspicabile, già data: nei suoi disegni scarni e monocromatici – tutti azzurri, tutti gialli – è l’energia vitale che pulsa e organizza istintivamente il dato di esperienza rinnovando i codici e l’immaginario.

Mitomania?, autoritratto mitopoietico di una transizione? Solo che Josephine costruisce il suo ritratto e poi lo straccia, di continuo, non ferma nulla. L’autocelebrazione è filtrata, assediata dall’annientamento. Irrita, provoca, eccita Josephine, si fa a pezzi davanti ai nostri occhi e poi, come per magia, si ricompone, e si libra in volo, aiutata dagli animali che lei stessa ha disegnato: uccellini, elefanti, che decollano dalla pagina, abbandonano la vignettatura e spalancano l’unico vero, pieno, contatto umano del libro.

Scandagliare l'esperienza

Anestesia, esattamente come i romanzi precedenti, è un grande viaggio di reinvenzione del sé: Josephine Yole Signorelli è una pioniera che scandaglia l’esperienza al di fuori delle recinzioni del giudizio, con la sua identità fluttuante, continuamente messa in discussione: quanto può essere struggente, dolce, ipnotico il brutto, lo storto, lo sgraziato, il fallito? Quanto ci siamo persi, ci stiamo perdendo, rifiutando intere porzioni di vita – emotiva, creativa, sessuale – a causa di un preconcetto? È coraggiosa questa antieroina armata di carta e china, ma il coraggio, si sa, è una virtù ambivalente: perché significa, può significare, anche non essere amici di sé stessi, esporsi agli eventi fino a costringere la mente o il corpo a dei no assoluti. Che nel libro puntualmente arrivano.

Josephine nel paese in cui l’orrore si confonde con la meraviglia: nelle sue fiabe oscene e struggenti l’amore della tua vita ti passa la sifilide, il lavoretto per mantenerti all’università lo trovi al night club, i padri crollano in lacrime proprio quando dovrebbero farti sentire al sicuro.

Impossibile, viene da pensare: troppo, per una vita sola questa è troppo – e invece accade, accade tutto nelle pagine di queste storie tenere e disturbanti, che non è secondario siano raccontate a fumetti. Perché i fumetti sono i candidati più giusti per rimodulare la cultura di massa: sono un mezzo crossmediale, in bilico tra forme espressive diverse, immagine, parola, pagina bianca. Accessibili e veloci, ibridi e precisi.

Abbiamo bisogno di queste storie sbagliate che immettono il senso delle possibilità attraverso un piano che non è solo logico-verbale, teorico, che ci catapultano direttamente nelle scene narrate, nella trama percettiva, sensoriale. La potenza delle graphic novel è tutta qui: abbracciano livelli di senso diversi, penetrano sotto la superficie della coscienza, e agiscono inesorabili, per tutte le età, a tutte le latitudini socio-culturali, instillando in noi l’incipit della conversione al nuovo.

L’autofiction – scritta o disegnata – ha spesso anche un potenziale pre-politico: è in grado di fare della vita dell’autore, dell’autrice, un terreno dai confini porosi, aperto a tutti, in cui il trauma può diventare il sintomo o la spia di un problema universale, e le sensazioni contingenti si rapprendono in scene-memorabilia che tornano e ritornano – come nei testi dei rapper – aiutando a travalicare i perimetri egoici, collettivizzando le conquiste del singolo.

Un ciclo continuo di racconto

I libri di Fumettibrutti, come spesso accade con l’autofiction, sono essi stessi parte della storia che leggiamo, sono tappe metatestuali della vicenda che ci scorre sotto il naso: raccontano la loro origine, la loro genesi. Josephine infatti è tra le pagine dei suoi libri, ma anche sui social, in particolare su Instagram, dove assistiamo al ciclo continuo di racconto, autorappresentazione, esposizione del corpo, posta del cuore, allusione, promessa, sfida al perbenismo. Qualcosa contro cui alcuni si scagliano, scandalizzati dal fatto che si esca dai canoni delle singole professioni, delle discipline, che si fondano insieme vita, autore e personaggio, pubblico e privato, suggestione e dato di realtà.

Solo che, mentre i nostalgici ripetono i loro macabri, tediosi mantra reazionari, artisti come Josephine Signorelli svelano molto, svelano tutto, a partire dalle responsabilità di quegli stessi indignati, e poi il fallimento del mondo dei grandi, delle istituzioni, dei tribunali, che non vedono o vedono male, non sanno proteggere, o anzi si accaniscono, assediando, violentando, usando le parole sbagliate, slacciandosi i pantaloni prima del consenso, distruggendo ciò che si vergognano di desiderare.

Le cose si possono mettere male, pare dirci Josephine, eppure quando tutto sembra perduto, quando la vagina che hai sempre sognato, a causa dell’incuria dei medici, sembra una gomma da masticare e il ragazzo dei tuoi sogni si rivela un tossico traditore, si può perlomeno riprendere in mano la matita. E ridisegnare tutto. Ancora, di nuovo. Da una tavola all’altra, da un libro all’altro, oltre e contro ogni standard, ogni sciocca striminzita normalità.

© Riproduzione riservata