«Arte è la vita mia» scriveva nelle sue Scintille poetiche il più geniale dei nostri poeti barocchi, Giacomo Lubrano. Quel predicatore gesuita, in un sonetto intitolato Prosopopea, spiegava il mestiere dell’autore immaginandosi d’essere un baco da seta: un verme schifoso che, intrecciando i propri schifosi umori intimi in una preziosissima dimora incubatrice d’arabesco, si guadagna il cielo con l’arte, appunto, del sarcofago che si fila indosso tutta la vita. Il cielo, e la bellezza.

Arte è la vita mia: tesso e ritesso

le viscere spremute in bave d’oro

né pur nel chiuso boccio ove dimoro

m’è di volar al fin sempre concesso.

Salendo in su, di vil ginestra appresso

le rovine al mio serico lavoro.

Così filando i giorni, arso, mi moro:

Parca, Prefica insiem, tomba a me stesso.(...)

Certo qualcuno deve pur raccoglierli quei viscerali lavorii di bava, scioglierne il filo, farne tessuto. Non tutti i sarti hanno però misura, non tutti i lettori. Giuseppe Zigaina, pittore friulano di cui ci ricordiamo solo perché era amico di Pasolini, si mise in testa che Pasolini avesse architettato la propria tragica, insensata morte di martire; che si fosse fatto uccidere in un ultimo inimitabile atto performativo da far arrossire Gina Pane, Pippa Bacca e Marina Abramović. Raccogliendo il cadavere di quell’autore così verme e così abbagliante nella seta della sua arte – oggi dipinto, sugli argini del Tevere, nei graffiti di sporcizia di William Kentridge – Zigaina ha persino scritto un perturbante libro per dimostrare la sua tesi. Una tesi assurda ovviamente, ma giustificata dall’antica idea poetica ed esistenziale di Lubrano («Parca, Prefica insiem, tomba a me stesso») e di Pasolini medesimo, che famosamente comparò morte e post-produzione cinematografica («La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi e li mette in successione»). D’altronde, in un altro ben più celebre sonetto da interrogazione di liceo, il nostro massimo tragediografo, Vittorio Alfieri, scriveva sul retro di un proprio ritratto «Uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai».

L’unica poetica sensata

Ora, per quanto le dismisure mi paiano appropriate all’argomento, non voglio davvero equiparare la morte di Pasolini all’esclusione di Teresa Ciabatti dalla cinquina dello Strega. Voglio solo dire che Ciabatti, la più barocca, la più pasoliniana, la più tragica delle nostre voci letterarie contemporanee, sembra essersela cucita addosso questa apparente sconfitta, questo imbarazzante sudario di bave d’oro, quest’abito di seta grezza che mi piacerebbe raffinare.

Da un decennio almeno, Ciabatti imbastisce l’unica poetica sensata per una donna italiana della sua generazione: quella del baco. In quest’industria culturale bacata, Ciabatti è la matta che riprende le fila, il filo, della grande tragedia: del grande male, dell’inesausto allarme per la fine della modernità (o meglio, per il suo smascheramento: scovare il doppiofondo del baule della borghesia e trovarlo vuoto).

Pizzica però quel filo in minore, in bemolle, come se nel baratro del nichilismo ci fosse caduta per sbaglio dal balcone sul Pantheon. Come se davvero assomigliasse alle querule Alici dei suoi romanzi, ai personaggi che intervista per quegli articoli che gli addetti ai lavori, si mormora, chiamano “ciabattate” (Cristina D’Avena, il sosia di Pavarotti, Cesare Casella, l’attore bambino – ormai suo malgrado adulto – del Pinocchio di Comencini). Come se “ciabattate” non fosse l’equivalente postremo delle “brinate” novecentesche di Irene Brin, nostra signora del gusto; come se, prima della Holden, non si fosse laureata in Lettere.

Come se non lo sapesse che Matrigna, il titolo del suo romanzo più irrisolto, allude a Leopardi, o che nascere nei pressi della morte di Pasolini significa arrivare tardi anche per le soluzioni in fondo ancora alte, di scandalo perbene e marxista, meritevoli di Streghe, di un Walter Siti. È questa l’illustre linea di benestanti colpevoli e disperati che si staglia alle spalle di Teresa Ciabatti, l’unica italiana vivente capace di vendere a peso d’oro la stupida, volgarissima fine dell’occidente e della borghesia come fosse per davvero una storia d’amore, un gialletto sul padre piduista, un mistero di provincia, una tragediola di cronaca vera (e forse, diomio, lo è).

Serenamente ambiziosa

Intendiamoci, non credo che Ciabatti non volesse vincerlo davvero lo Strega. Una sua qualità sfolgorante è il fiuto per l’importanza, per il mainstream senza nostalgie d’affluenti puristi e rigagnoli blasé – potrei dire il candore, se non avessi appena scomodato Leopardi, ma d’altronde l’essenziale questione critica su Ciabatti non può che essere: ci fa o ci è, senza punto interrogativo. In questo somiglia a Paolo Sorrentino che ringrazia Maradona agli Oscar, a Joyce Carol Oates che aspetta la telefonata per il Nobel nella sua magione in New Jersey centrale, al vecchio Umberto Saba che rifiutava la cattedra di Ungaretti a San Paolo ma si premurava di chiedere ai brasiliani se non ci fosse un analogo onore da accettare magari in Svizzera.

Ciabatti collabora col Corriere, pubblica per Mondadori, scrive per il cinema di cassetta. È serenamente ambiziosa insomma, pur nella sua inesausta, crudele autoironia. Eppure, come intendeva dire Pasolini con la storia del montaggio, il vero autore di ogni vita umana si rivela inatteso e contrario, come un poltergeist, come una gracidante protagonista pariolina di Ciabatti, giacché vivere e scrivere (ma lo sappiamo da Proust, da Dante) sdoppia, convoca un altro. Solo se è vero che Ciabatti, la Ciabatti biografica, desiderava entrare in cinquina può essere vero che il suo specchio, la Ciabatti narrante, la bavosa Ciabatti baco (che è non solo personaggio ma soprattutto voce altra in molti romanzi di Ciabatti, e in Sembrava bellezza particolarmente), ha architettato la sconfitta della sosia: si è fatta arrivare settima per una questione poetica. La sconfitta «compie un fulmineo montaggio», monta in un film brillante il serico lavoro di Ciabatti.

Un’anomalia

Si parta dalla fine, dalla clip dell’intervista al Teatro Romano di Benevento, nel giorno dell’annuncio della cinquina. Allo Strega precedente (quello che davvero doveva vincere, e che già mi parve perdere solo per poter scrivere la superba cronaca del giorno dopo sul Corriere, vero capitolo finale del romanzo La più amata) Ciabatti si presentava sobriamente squillante, artatamente impacciata, festiva immedesimandosi nel ruolo della riluttante, spaesata ma convinta eroina – il ruolo di chi compete nei talent e vince, ma anche di chi va in guerra con Agamennone o Carlo Magno e, pure, vince, ma rimane trafitto sul campo di battaglia. A questo Strega, subito prima di sapere che non vi concorrerà, Ciabatti sembra invece già in lutto. Occhialoni neri, nera giacca su nera blusa, una voce profondissima che, malgrado il consueto accento artificiale incapace di liberarsi delle consonanti di Orbetello, non sembra neanche la sua.

È già, prima di saperlo, la favorita esclusa di cui tutti parlano, si sconfigge da sola, si dipinge come un’anomalia (proprio lei, l’autrice di grido, quella che vuole mettere insieme Maria De Filippi e J.D. Salinger).

Ciabatti è anomala perché non fa finta di non voler essere, di non essere, una scrittrice importante. È anomala perché, invece di fare il verso all’universale degli altri scrittori importanti del mondo, tiene l’orecchio premuto sul ventre di questa terra assurdamente particolare e ne spreme le poche, peculiari bave d’oro senza ironia, senza condanna, sprofondata in un imbarazzo da cui non si riesce a distogliere lo sguardo come da un incidente. Sembrava bellezza non è un romanzo sull’adolescenza né sul corpo – come La più amata non era un romanzo sulla famiglia. È (sono) l’autopsia di una generazione, il testamento di una seconda persona plurale afflitta da un’amnesia apocalittica, definitiva. Finge appunto di essere scritto come un referto, e invece è tutto giocato nello stile (rastremazioni, discipline incredibili: l’arte di disseminare indizi lampanti in un apparente casino, l’astuzia di una cantilena insopportabile che rende sopportabile il baratro, tipo Pascoli, tipo Giovanna Marini, tipo Madame, che non si capisce se faccia la parodia del rapper dialettale mentre infila enjambement allucinanti e rime al mezzo da marinista consumata).

Se Teresa Ciabatti fosse entrata in cinquina, se avesse vinto lo Strega, la sua involontaria, curatissima prosopopea ne sarebbe uscita dimidiata. Non avrebbe potuto più credibilmente esercitare il suo maternage queer da papessa degli sfigati d’incongruo talento, non si sarebbe più potuta specchiare con ipnotico orrore nei poeticissimi squallori della reborn-doll community. Da lettore, da italianista, mi compiaccio di quest’iconica sconfitta, tanto splendidamente performata che sembra uscita dalla spietata penna di Teresa Ciabatti. Vorrei solo che alcuni dei miei colleghi si rassegnassero all’evidenza che, se Ciabatti fosse un uomo (o almeno una donna canadese o francese), si accanirebbero a filare la sua seta invece di credere alle menzogne di cui si sostanzia.

 

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