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Teresa Ciabatti desiderava sicuramente entrare nella cinquina del Premio Strega, ma proprio per questo il suo specchio ha architettato la sconfitta: si è fatta arrivare settima per una questione poetica.
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Se fosse entrata in cinquina, se avesse vinto lo Strega, la sua involontaria, curatissima prosopopea ne sarebbe uscita dimidiata. Non avrebbe potuto più credibilmente esercitare il suo maternage queer da papessa degli sfigati d’incongruo talento, non si sarebbe più potuta specchiare con ipnotico orrore nei poeticissimi squallori della reborn-doll community.
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Da lettore, da italianista, mi compiaccio di quest’iconica sconfitta, tanto splendidamente performata che sembra uscita dalla spietata penna di Teresa Ciabatti.
«Arte è la vita mia» scriveva nelle sue Scintille poetiche il più geniale dei nostri poeti barocchi, Giacomo Lubrano. Quel predicatore gesuita, in un sonetto intitolato Prosopopea, spiegava il mestiere dell’autore immaginandosi d’essere un baco da seta: un verme schifoso che, intrecciando i propri schifosi umori intimi in una preziosissima dimora incubatrice d’arabesco, si guadagna il cielo con l’arte, appunto, del sarcofago che si fila indosso tutta la vita. Il cielo, e la bellezza. Ar



