Lo scorso 29 dicembre, nell’ambito del progetto “Natale in carcere” promosso dal Partito radicale e dall’Osservatorio nazionale Aiga sulle carceri, come direttivo della sezione Aiga Palermo abbiamo avuto la possibilità di entrare nella casa circondariale Pagliarelli di Palermo.

Scopo della visita era quello di vedere con i nostri occhi le condizioni in cui vivono i detenuti, raccogliere dalle loro parole, e da quelle del personale che lavora all’interno della casa circondariale a vario titolo, le criticità e i problemi della struttura e dell’organizzazione della stessa.

Da avvocato penalista ero già entrata nelle carceri palermitane per un’udienza in aula bunker o per colloqui con clienti detenuti, ma accedere alle celle, parlare con i detenuti, è stata un’esperienza umana e professionale decisamente forte.

Il nostro tour è cominciato dalla sezione “Venti”, quella di alta sicurezza, ed è stato subito un pugno allo stomaco.

Attraversiamo un lungo corridoio, le pareti sono ricoperte da murales a tema siciliano, un’esplosione di colori che contrasta con l’architettura spoglia del reparto.

Ci dirigiamo al terzo piano salendo dei gradini piuttosto alti. «È faticoso farli tante volte al giorno», mi conferma uno degli ufficiali di polizia penitenziaria che ci sta accompagnando nella visita. Sfiliamo davanti alle celle chiuse, quasi tutti raggiungono le sbarre per vedere chi sta arrivando. Salutano cordialmente, ogni tanto qualcuno di noi si ferma davanti a una cella e comincia a parlare con i relativi inquilini.

Sopravvivere

Dopo i primi momenti di titubanza anche io scelgo una cella e mi ci avvicino. Il detenuto è da solo nonostante ci siano due letti. Leggo il nome e il cognome dell’occupante scritto a penna su una targhetta appesa fuori. Gli spiego chi sono e perché mi trovi lì.

Gli dico che sono un avvocato e che lo scopo della visita è quello di vedere in che condizioni vivono – ho un rigurgito di pudore e mi correggo – in che condizioni sopravvivono all’interno del carcere.

Ha 60 anni, ne dimostra parecchi di più. Si lamenta del freddo che li affligge lì dentro, getto un’occhiata al termosifone arrugginito collocato proprio fuori dalla cella: è spento, come tutti gli altri. Anche la direttrice mi conferma che l’impianto di riscaldamento non funziona, e aggiunge che lì la cosa peggiore da sopportare è il caldo. D’estate diventa intollerabile. Penso all’ironia del nome scelto per la sezione, che si chiama “Scirocco”.

È in attesa di giudicato, si trova al reparto alta sicurezza da un anno. Gli chiedo se qualcuno lo vada a trovare e mi dice che più che altro fa la videochiamata con i suoi figli per un’ora alla settimana. La moglie è morta qualche anno fa, e i figli vivono nella sua città di origine, sono in gamba, non vuole che lo vadano a trovare. «Almeno sua moglie non l’ha vista qui dentro», gli dico in un goffo tentativo di dare un sollievo a uno sconforto che non può trovare ristoro. Lo saluto, gli auguro in bocca al lupo per il suo processo.

Mi viene data la possibilità di entrare all’interno di una cella, gli ospiti sono due uomini di circa quarant’anni, hanno entrambi barba e capelli neri e gli occhiali, come quasi tutti gli altri indossano una tuta. Non c’è molto da girare, la cella è tutta lì: 12 metri quadrati in cui sono collocati come se fosse una partita di tetris due letti, un tavolino, un bagnetto vecchio e malconcio, e poco altro.

La biancheria lavata è appesa alla finestra, mi sembra di violare quel poco di privacy di cui dispongono. Li ringrazio, uno dei due mi offre una caramella alla menta che non ho il cuore di rifiutare, la infilo nella tasca del cappotto e li saluto.

La cella a fianco è occupata da un uomo di 35 anni, ha un sorriso luminoso che cozza con tutto il resto: con lo squallore della cella, con i crimini per i quali è stato condannato, con la misera esistenza che vive da 10 anni nelle maglie del sistema penitenziario.

Gli faccio delle domande, si vede che vuole chiacchierare un po’. Mi risponde che aveva 25 anni quando è entrato, si era sposato da due mesi. Sua figlia è nata quando lui era già in carcere. Non ha mai conosciuto suo padre come uomo libero, questo lo penso io, ma ovviamente non glielo dico.

16+8+4 è il cumulo delle pene che dovrebbe scontare. Dai suoi calcoli, tra continuazione e liberazione anticipata dovrebbe fare almeno altri 7 anni. Non conosco la sua situazione processuale, ma temo che i suoi calcoli siano un po’ ottimistici. Anche questa riflessione la tengo per me.

Sono numeri che pesano, numeri inesorabili che lo separano dalla fine di questa non vita, ma che incredibilmente non gli smorzano il sorriso. Mi è venuto spontaneo dargli del tu quando ho cominciato a parlargli. Dimostra molti meno dei suoi anni, glielo dico e lui mi regala un altro sorriso che mi rallegrerebbe se riuscissi a dimenticare che è un detenuto di alta sicurezza che, a giudicare dalle pene a cui è stato condannato, con ogni probabilità si è macchiato di crimini molto gravi.

Gli chiedo invece come trascorre le lunghe ore in cella: si tratta di 18 ore al giorno in un “loculo” in cui mangiano, dormono, cucinano, si allenano, lui fa le flessioni nello spazio tra i due letti.

Mi dice che in carcere si è preso la licenza media e che non ha continuato a studiare perché vorrebbe fare il liceo artistico. Gli consiglio di continuare a studiare, di prendere un diploma, va bene quello alberghiero (l’unico di cui può usufruire all’interno di questo istituto di pena) e che deve nutrire anche la sua testa. L’allenamento lo ha mantenuto giovane nell’aspetto. «Conserva giovane anche il tuo cervello leggendo dei libri», gli dico. Lui in risposta me ne mostra tre che ha preso in prestito alla biblioteca del carcere.

Lo saluto, gli raccomando di prendersi il diploma. «Una volta uscito da qui ti sarà utile», aggiungo sperando che sia vero.

«Mafioso d’ufficio»

Raggiungo un collega che sta parlando con un altro detenuto. Ha un aspetto distinto, nonostante l’abbigliamento sportivo, parla quasi senza inflessione dialettale. Faccio l’avvocato penalista da 16 anni e distinguo con uno sguardo i delinquenti abituali da chi non è avvezzo ai problemi giudiziari. Mi dice che è un imprenditore, professa la sua innocenza. Sta scontando una pena definitiva di 7 anni, a febbraio uscirà.

Non siamo autorizzati ad ascoltare i particolari giudiziari dei detenuti, non gli faccio domande anche se mi pare chiaro che sia stato condannato per reati relativi alla criminalità organizzata.

«Quando uscirò da qui, fra due mesi, vorrei poter raccontare la mia storia. Sono stato considerato mafioso d’ufficio», chiosa con un tono colmo di frustrazione.

Gli dico di tenere duro, che due mesi passano velocemente. Mi dice che lui ha la fede e la lettura che lo aiutano. Gli rispondo che la fede mi manca, ma credo nel potere salvifico dei libri.

«Esco meglio di come sono entrato», è questa la frase con cui si congeda.

Mi rimane impressa. È il contrario di tutto quello che ho pensato oggi mentre mi sfilavano davanti i volti dei detenuti ristretti in queste celle minuscole. Dove sarebbe il fine riabilitativo di una pena scontata in queste condizioni? Come si potranno reinserire nella società queste persone?

La visita prosegue poi nel reparto “Mari” di media sicurezza destinato alle categorie protette. Anche qui le celle sono minuscole, un ragazzo si affaccia tra le sbarre quando gli passo davanti, non mi fermo, proseguo fino in fondo al corridoio, rivolgo un saluto a tutti i detenuti che si sono affastellati davanti le celle per sbirciare il nostro passaggio.

Torno indietro, il ragazzo è ancora lì, con le braccia che sporgono dalle sbarre, gli chiedo come si chiama e da quanto tempo è recluso. È in carcere da un mese, mi risponde, e nel frattempo il compagno di cella lo raggiunge. Saluto anche lui, rimango nonostante sia infastidita dal fumo della sua sigaretta che mi riempie le narici. Mi dice che lui uscirà presto perché si disintossicherà in comunità. «Glielo auguro», è il mio silenzioso auspicio per lui.

Il cappellano

L’incontro con fra Loris è una boccata d’aria fresca dopo le visite appena fatte. È uno dei cappellani del carcere. Ha lo sguardo limpido di chi ha un cuore grande e buono. Mi racconta delle molteplici attività che organizzano per i detenuti.

Gli domando se abbiano fatto qualcosa di particolare per Natale. Il frate si illumina in volto, mi racconta che un coro di bambini di scuola elementare e media ha fatto il suo ingresso all’interno dell’istituto. Il momento dei canti natalizi è stato molto coinvolgente. La presenza dei bambini, la dolcezza dei loro canti ha provocato una grande emozione nei detenuti, che esplodevano in boati di gioia, forse perché quei bambini gli ricordavano i figli o i nipoti fuori dal carcere.

Gli occhi di fra Loris sono liquidi per la commozione, credo anche i miei. Ma siamo all’interno di una casa circondariale, e il nostro viaggio è arrivato alla meta più dura: il reparto psichiatrico.

Il reparto psichiatrico è un girone dell’inferno: una delle sezioni è chiusa per un caso di scabbia. Appena sento questa parola, la suggestione prende il sopravvento e mi sembra di avere prurito sulle braccia e sulle gambe. Provo a scacciare il pensiero di una malattia che dovrebbe essere debellata da secoli, e proseguo insieme agli altri per le sezioni del reparto.

A guidarci stavolta è lo psichiatra, approfitto della sua disponibilità per porgli alcune domande.

Quali sono le patologie riscontrate più spesso? Come distinguere le psicosi reali dalle eventuali simulazioni?

Le patologie sono spesso disturbi di personalità o di socialità, gli episodi psicotici possono essere pregressi o, come accade abbastanza frequentemente, derivanti dallo stato di detenzione.

Mi conferma che alcuni detenuti simulano comportamenti psicotici nella speranza di essere dichiarati incompatibili con la vita carceraria.

Nella prima cella dell’osservazione psichiatrica c’è un uomo dai capelli grigi, come la barba, guarda un punto indefinito davanti a sé, non si muove nemmeno di un centimetro quando noi gli passiamo davanti.

Chissà in quale mondo si è perso, mi domando. Guardo lo psichiatra e gli chiedo: si può simulare un tale smarrimento? «No, non credo», mi risponde.

Il settore di degenza psichiatrica mette i brividi: le celle sono “lisce”, come le definisce il dott. C. Sono prive di suppellettili e il materasso è adagiato a terra, non ci sono nemmeno le reti. Qualsiasi oggetto che possa diventare un potenziale pericolo è bandito. La prima cella è occupata da un ragazzo africano, ha due braci senza fondo al posto degli occhi, ha uno sguardo che ti lacera l’anima.

Guardo di nuovo il dottore, la richiesta è sempre la stessa di prima, la sua risposta idem: sì, anche lui, per il suo parere professionale, è un paziente psichiatrico a tutti gli effetti. In più c’è l’ostacolo linguistico ad aggravare la difficoltà di una diagnosi completa.

Guardo questo ragazzo, quell’abisso che ha negli occhi non lo si può ignorare, è quel tipo di dolore che ti rimane addosso, ti rimane impresso e te ne porti il ricordo anche fuori.

Nel frattempo, dal settore di osservazione psichiatrica arrivano dei boati assordanti. È qualcuno che sbatte contro il vetro della finestra con violenza. Si tratta di un detenuto proveniente da un altro istituto, è arrivato da meno di un’ora, ci dicono.

Tutti quanti capiamo che è arrivato il momento di abbandonare il reparto. Siamo degli intrusi in un luogo di troppo dolore, i detenuti non hanno voglia di chiacchierare con noi.

Settore femminile

L’ultima tappa del nostro tour è il settore femminile, che viene definito un bijou rispetto al settore maschile dalla dottoressa Sabrina Giordano, operatrice e nostra guida della giornata. Effettivamente il reparto ospita un esiguo numero di detenute (appena 73), gli spazi all’interno delle celle sono molto più ampi. Ne individuo una in fondo a destra dello spazioso corridoio, le detenute sono tutte in piedi davanti alla porta. Quando mi avvicino, si scostano per farmi entrare. Io gli domando il permesso e loro, forse stupite da quell’accorgimento, mi dicono con grande cortesia di entrare.

La cella è abbastanza grande e luminosa, ci sono dei letti a castello ma sembra che il letto di sotto sia adibito a dispensa, sono pieni di cassette d’acqua e di generi alimentari.

Parlo con tutte, ma colei che mi colpisce maggiormente è una signora di 50 anni, è in carcere da 11 anni e sta scontando un ergastolo. Le chiedo informazioni su come si procurino i generi alimentari che loro stesse cucinano all’interno della cella. Cosa potrei dirle sul carcere a vita? Che forse quando avrà trascorso almeno 26 anni in detenzione potrà aspirare alla libertà condizionale?

Mi spiega che lei lavora all’interno del carcere, riceve lo stipendio sul suo libretto e una volta a settimana fanno la spesa, che gli viene recapitata il giovedì. Faccio qualche domanda sui prezzi per capire se sono concorrenziali, e lei mi conferma che sono normali. Lasciato il reparto con le celle, una delle agenti di polizia penitenziaria ci guida all’interno delle parti comuni del settore “Monti”, quello femminile appunto, ove sono presenti una parrucchieria ben attrezzata, una biblioteca, una sala di meditazione, una cucina dedicata al laboratorio “Pane spezzato”, in cui le detenute, insieme a fra Loris, realizzano le ostie per le chiese. L’agente ci illustra tutto con grande orgoglio come una padrona di casa che fa fare il tour della sua casa, e forse per lei quel reparto è davvero diventato una seconda casa. Dopo quasi 4 ore, la nostra visita è finita. Sono la prima che esce, un senso di claustrofobia reclamava uno spazio aperto. Respiro a pieni polmoni appena fuori dalla struttura. L’aria di un dicembre mite è più calda della temperatura all’interno delle sezioni.

Il freddo che ho sentito dentro al carcere mi è rimasto nelle ossa, la desolazione è invece appiccicata agli occhi e alla mente.

Quello che ho appena visto lì dentro non ha nulla a che fare con la rieducazione del reo, né con il suo reinserimento nella società, non ha nulla a che fare nemmeno con l’umanità.

© Riproduzione riservata