Egregio direttore,
le scrivo in merito al racconto di Jonathan Bazzi pubblicato sull’edizione di ieri, 22 agosto 2021 (“Lascio a voi…”.) Mi chiedo come sia possibile che sia stato pubblicato in questo modo. È da quando l’ho letto che cerco le parole per esprimere quanto sia dannoso un testo simile, presentato senza alcun tipo di avvertimento o content warning. Il fatto che questo vada spiegato, e non vi sia stato chiaro da prima della pubblicazione, temo denoti una grave mancanza di sensibilità.

Chi muove una critica al racconto (che, per come viene presentato, dà l’impressione di essere un articolo d’opinione) non vuole praticare una censura, o insinuare che non si possa parlare di temi forti in letteratura. C’è tuttavia modo e modo: ieri, nel dibattito social, si sono addirittura scomodati grandi classici come Delitto e Castigo e Lolita. Volendo fare un raffronto, per chi legge Lolita è molto chiaro quale sia la posizione dell’autore nei confronti del suo protagonista e della bambina Dolores: in tutta la narrazione sono presenti elementi che condannano Humbert Humbert. Questo atteggiamento è del tutto assente dal racconto di Bazzi, che si legge come si leggerebbe la pagina di un diario o blog pro-ana, vale a dire quel filone di siti, chat, blog e altro atti a far peggiorare la malattia di chi soffre di disturbi del comportamento alimentare.

Qui è il punto: i concetti narrati, facendo riferimento a molti, specifici pensieri dettati dalla malattia, non sono innocui. Vanno a influenzare in maniera incredibilmente negativa la psiche di chi ogni giorno combatte contro quegli stessi pensieri (e questo, le faccio presente, è un dato di fatto testimoniato da più persone che si sono trovate a leggere le parole del racconto). Non trova, direttore, che abbiate un dovere preciso nei confronti di chi vi legge? Trovate forse, alla redazione di Domani, che in nome dell’Arte si possa sacrificare la salute psicofisica dei vostri lettori? Io spero che le risposte a queste domande siano all’altezza del mestiere che operate.

Distinti saluti,

Arianna Mandorino, Gaia Barlassina, Giulia Siciliano, Maya Gargiulo, Chiara Franceschetti, Sofia Anfuso, Flaminia De Leonardi, Giorgia Frigerio, Caterina F.


La risposta di Jonathan Bazzi:

Parto dalle intenzioni: il mio racconto è nato per esplorare una contraddizione, ovvero il fatto di comprendere il valore di una battaglia (quella della body positivity/fat acceptance) ma di essere animati allo stesso tempo da desideri diversi, persino opposti. Volevo provare a fermare con le parole e le immagini l’esperienza di una persona (che sia io stesso o meno non importa) non tanto già affetta da un disturbo alimentare, ma sulla soglia, in una specie di possibile prologo teso, confuso. Come autore mi interessano sempre di più questi territori liminali, nei quali molti possono rispecchiarsi, e che forse per questo finiscono per inquietare di più, dato che impediscono di mettere in atto l’immediata contrapposizione ormai dilagante nel dibattito contemporaneo che tutto cerca di polarizzare.

Mi interessava mostrare come il desiderio (di essere altro, diventare altro) complichi e confonda tutto, e possa resistere a qualsiasi tentativo di correzione, liberazione, incentivo all’amore di sé. Il desiderio spesso, che ci piaccia o no, non fa tornare i conti. E credo che la letteratura – a differenza di altri tipi di discorso, pur legittimi e anzi necessari – abbia anche questo compito: si possono scrivere racconti e romanzi in linea con i principi di movimenti e rivendicazioni, o semplicemente liberi, fluttuanti tra un valore e il suo opposto. E lo si può fare per varie ragioni, per amor di verità, per mostrare la dignità e persino la bellezza senza consolazione di esistenze che seguono vie diverse da quella retta, giusta, auspicata.

Da scrittore – e questa è una consapevolezza che metto a fuoco di giorno in giorno – è importantissimo per me mantenere questa distinzione, poter esplorare anche i miei e gli altrui impulsi sbagliati. Giocarmi tutto, azzerare quel che ho detto o pensato fino a quel punto – e quindi anche la mia immagine pubblica, la mia reputazione – per provare a mettere al mondo qualche immagine sorgiva, pulsante. C’è chi ha trovato sbagliato e insopportabile il mio racconto e chi l’ha ritenuto toccante, commovente: questa contrapposizione a me interessa, e di più: affascina.

Mi si consenta una confessione: in passato anche io ho pensato fosse possibile armonizzare in maniera puntuale dimensione morale e creativa, ora inizio sempre più spesso a farmi delle domande. Intendiamoci: per la mia storia capisco bene il lavoro quotidiano, e prezioso, che occorre fare per aggiornare i copioni tradizionali della società, ma mi rendo conto che dobbiamo giocare su più fronti, non dimenticando che la dimensione estetica implica un “libero gioco tra le facoltà”, ed è altro quindi dalla ragione pura e da quella pratica. Un certo attivismo performativo invece, in un meccanismo di riflessi automatici (molte critiche sono esplose senza neanche aver letto il racconto), pretenderebbe di leggere tutto con le sue lenti prescrittive, non riconoscendo la legittimità di elementi controversi, che sono inevitabili e forse persino salutari nel mantenere vitalità dialettica all’interno di un corpo sociale e culturale maturo. Abbiamo bisogno di spazi in cui non sappiamo dove stiamo andando, abbiamo bisogno della contraddizione, e forse anche di più compassione verso i presunti “nemici”.

Pattern e modelli narrativi fino a poco tempo fa innovativi si stanno già sclerotizzando (lo vediamo bene dalle serie tv) e alcuni dei commenti che mi sono arrivati sembrano pretendere che si usino le card informative degli attivisti di Instagram come traccia per imbastire le storie.

Qualcuno nelle scorse ore ha provato a dire che, dopo averlo in parte criticato, io mi sarei ora trovato a dare ragione al Walter Siti di Contro l’impegno: in realtà io penso si possa fare tutto, scrivere letteratura impegnata o disturbante, esplorare immaginari marginalizzati o il fondo di amoralità/immoralità che sempre in noi rimane. Una storia deve funzionare, accendere connessioni: può farlo bene o male, può essere scritta bene o male, ma è poi anche tutta questione di affinità elettive. I racconti, i libri, sono come le persone: diversi. Qualcuno va bene per noi, ci parla, qualcun altro no. E si va avanti.

Non si può che ribadire l’ovvio: il conflitto fa parte della condizione umana e, mentre proviamo a ridurne gli effetti più devastanti, dobbiamo anche abituarci ad abitarlo, a conviverci. A trovare strategie di trasformazione e non solo di evitamento. Su questo il sogno totalitario di un certo attivismo digitale mi sembra abbia margini di miglioramento (anche perché certi toni e certi slanci aggressivi non fanno che immettere in circolo altra violenza).

E devo ammettere che mi lascia perplesso la richiesta di “trigger warning”, di avviso per i più sensibili, ovvero l’idea che libri, film e canzoni in definitiva non ci debbano fare male, che in essi sia bene trovare riprodotti i termini di un discorso in cui stiamo comodi, protetti. L’idea che i traumi non debbano essere rievocati, come in una specie di eterna convalescenza. Questa utopia igienista di un mondo finzionale senza scosse, agguati, nasconde un’idea un po’ povera di cosa debba essere un’esperienza estetica.

Quante occasioni in meno di pensiero o trasformazione, anche sofferta sulle prime, dolorosa, avrei avuto se non mi fossi imbattuto in opere e narrazioni che hanno rievocato e insieme infuso nuova luce sui miei traumi, sulle cose che nella mia vita non sono andate come avrebbero dovuto.

Credo che l’impegno per la diversità e l’inclusione non debba finire per segare il ramo su cui sta seduto: non tutto è luogo, setting, per curarsi, per lenire le ferite. Esistono gli studi di psicoterapia e le sale cinematografiche, i movimenti di liberazione e le raccolte di racconti destabilizzanti, esistono le lotte per ampliare il canone estetico e le storie sulle ossessioni che vanno invece da un’altra parte e non insegnano niente, ma esibiscono un destino o un suo frammento.

Entrando e uscendo da queste dimensioni noi stessi ci modifichiamo, perdiamo e acquistiamo pezzi, rischiando persino di imparare qualcosa di nuovo o di rinnegare ciò in cui fino a ieri credevamo: mi pare importante salvaguardare ancora, oggi, proprio oggi, lo spazio per tutte queste transizioni dall’esito ancora indefinito, per tutti questi passaggi esclusi dal calcolo morale delle nostre sacrosante teorie.

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