Per quali strade il male può irrompere nella nostra quotidianità travolgendo vite dentro cui ci sentivamo al sicuro? E in che modo certe persone, considerate piuttosto ordinarie fino a un attimo prima, si ritrovano a compiere le azioni più mostruose restando loro stesse incapaci di una spiegazione?

Non è facile per me aggiungere su La città dei vivi commenti più acuti e profondi di quelli che sono stati scritti negli ultimi giorni. Su queste pagine Walter Siti ha firmato un pezzo da cui mi sono sentito messo a nudo, e poiché per me tenere la guardia bassa è difficile – ma essere costretto a non tenerla è liberatorio – lo ringrazio. Dove sono insufficienti gli strumenti dell’analisi cercherò di supplire con il dato di esperienza, che è sempre inaffidabile ma qualcosa aggiunge.

Una prima notazione riguarda la tradizione da cui un libro come questo prende le mosse. Come giustamente ha notato Domenico Starnone, Emmanuel Carrère e Truman Capote sono autori difficilmente aggirabili da chi ricorra alla letteratura per costringere – rispetto a un episodio di cronaca nera – la realtà a rivelarsi come non farebbe sotto la lente del criminologo, del sociologo, dello psicologo, del filosofo. C’è uno specifico – riguarda postura, uso della lingua, struttura drammaturgica, capacità di mettersi in gioco – che rende la letteratura uno strumento d’indagine ancora ineguagliato. Non superiore rispetto ad altri, e tuttavia capace di illuminare zone della vita altrimenti destinate all’oblio. Agli autori citati, Starnone aggiungeva acutamente Javier Cercas.

Orchestra o solista

Capote e Carrère usano strategie narrative molto diverse (ma si sa quali legami corrano tra gli opposti) per concentrarsi sullo stesso oggetto: l’indagine su un fatto di sangue. Mentre il primo dirige un’orchestra, l’altro compone musica per voce sola. Capote è un narratore invisibile mentre Carrère è (studiatamente) sin troppo ingombrante, entra in scena di continuo, si confessa in pubblico mentre riflette sulle malefatte del suo assassino. Si direbbe che Carrère rischi per questo di più. Non è così. È Capote a proteggersi di meno, a camminare sul filo del rasoio per quattrocento pagine. Tra Carrère e il “suo” pluriomicida c’è un fossato incolmabile che lo stesso scrittore contribuisce ad allargare: lui e Jean-Claude Romand sono due specie diverse, i loro ruoli non sono intercambiabili. L’assenza di Capote dalla narrazione e un uso impeccabile della lingua, sono al contrario la corazza sempre insufficiente (l’indubbia durezza della corazza e al tempo stesso la sua segreta frangibilità sono, sul piano letterario, vincenti) per difenderlo dall’eccessiva intimità coi responsabili del massacro. Nel film A sangue freddo del 2005, il regista Bennett Miller mette in bocca a Capote-Philip Seymour Hoffman una frase che non credo lo scrittore abbia mai pronunciato, ma che si rivela decisiva a proposito del suo rapporto coi due assassini: «È come se fossimo cresciuti nella stessa casa, solo che loro sono usciti dalla porta di dietro e io da quella davanti».

Un esercizio di prossimità

La letteratura come esercizio di prossimità, dunque. L’osservatore non è mai esterno, è sempre parte in causa anche se non lo vediamo. Cosa succederebbe se fossi io la vittima? E se fossi l’assassino? Voi che leggete? C’è qualcosa, negli assassini, che dimora in tutti noi in uno stato di latenza, a basso voltaggio? Come far uscire la vittima dalla sua posizione di eccezionalità, in modo da poterla amare? Sono domande che uno scrittore non può non porsi.

In Javier Cercas, ad esempio in un libro come Anatomia di un istante, c’è un’altra lezione fondamentale. Qui lo scrittore gareggia con lo storico. Cercas racconta il tentato golpe in Spagna del 1981. Un manipolo di militari irrompe nel parlamento armi in pugno e inizia a sparare per aria. Tutti si tuffano terrorizzati sotto i banchi. Solo tre uomini restano in piedi a difendere la democrazia: il primo ministro Adolfo Suárez, il tenente generale Gutiérrez Mellado, il segretario del Partito comunista Santiago Carrillo. Tre uomini altrimenti divisi da tutto. Cercas si concentra su Adolfo Suárez: è lui che i golpisti vogliono colpire, visto come ha smantellato in pochi anni il franchismo (a livello politico, amministrativo, burocratico) dalla macchina statale spagnola. Suárez sarebbe un padre della patria. Ma che tipo di eroe è? È un duro e puro? Un idealista dentro cui brucia incorrotto il fuoco della libertà e della giustizia sociale? Niente affatto. Suárez è un ex franchista, e poi è un trasformista, un voltagabbana, un istrione, un ipnotizzatore di folle, un seduttore, un magliaro, un giocatore delle tre carte, un maestro del compromesso e dell’inganno, il quale, proprio grazie a queste doti, regala al suo paese la democrazia. Un eroe dalla coscienza immacolata non sarebbe riuscito a farlo. Mentre sul piano classico, scrive Cercas, abbiamo «l’eroe del trionfo e della conquista, un idealista dai principi chiari e irrinunciabili», l’eroe dei nostri tempi è al contrario «pervaso dal dubbio, si barcamena tra compromessi e negoziati» fino a quando non ottiene un risultato che lo trascende. Quale meravigliosa lezione di morale. E quale rovesciamento, rispetto all’idiozia del discorso pubblico che ci vorrebbe sempre o bianchi o neri, gettando alle ortiche sfumature, ambiguità e contraddizioni senza le quali l’uomo non c’è più.

Non fiction novel

Dunque: la letteratura come antidoto a un buonsenso e a un conformismo profondamente inumani, alla retorica che affratella certe volte progressisti e reazionari. Li affratella nella politica (cioè nella pubblicità) e li affratella nella vita sociale e in quella privata (cioè nella continua prostituzione della propria complessità).

Un omicidio non è un evento che scaraventa vittima e carnefice nel novero delle creature fantastiche. Siamo tutti esseri umani, ma tendiamo a dimenticarcene perché siamo terrorizzati dalla possibilità di rientrare un giorno in una delle due categorie.

La nostra vocazione vittimaria è spesso ipocrita (ci travestiamo da qualunque cosa pur di millantare la nostra falsa superiorità morale), mentre l’idea di poter essere i carnefici di qualcun altro non riusciamo a tollerarla. La letteratura può aiutarci a farlo, in qualche caso per riuscirci deve rinunciare alla finzione.

A dispetto di certi anglismi fuorvianti, quella che in America chiamano non fiction novel – e che certo non riguarda solo gli omicidi – vanta in Italia (e nell’Europa continentale) una tradizione antica, solida, che per me ha contato molto. Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, alcuni racconti de Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati di Primo Levi, La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia, La pelle di Curzio Malaparte (l’elenco potrebbe continuare) sono esempi di come la letteratura può occuparsi di realtà. (Il che significa oscurare in tutto o in parte la finzione, ma al tempo stesso utilizzare tensione, energia, coinvolgimento personale di cui di solito la finzione stessa si alimenta per prendere la realtà alle spalle, cogliendone per prima il lato in ombra). Aggiungo che in questi autori ritrovo la persistenza di qualcosa che nei nord americani – a dispetto della loro magistrale capacità di tensione narrativa – non è mai stata forte, e ora è sempre più debole. La si può vedere forse meglio adesso, a distanza di decenni.

Odio la macchina

Evaporate le retoriche dell’ideologia, scomparsi i fumi dei congressi di partito e dei dibattiti extraparlamentari, ritrovo sul dorso di quegli stessi autori – europei e italiani – la polvere dei grandi maestri del sospetto, trovo Nietzsche, Freud, Marx, i grandi modernisti, il lato più duro e affascinante del pensiero cristiano, ma insieme a Simone Weil e ad Albert Camus trovo de Sade, Kierkegaard, Darwin, Dostoevskij, e ancora, molto più indietro, i tragici e i presocratici. Riconosco, voglio dire, nella letteratura del vecchio continente (anche in quella che fa a meno della finzione) la persistenza di domande da cui il XXI secolo non sembra volersi far mettere in crisi. Cosa sta diventando l’uomo? Su che si fonda il nostro libero arbitrio? Il male è un forma di possessione? È un pozzo nero in fondo a cui c’è una possibile salvezza? L’unica possibile? A che punto è il diritto rispetto alla giustizia, ma soprattutto la giustizia al cospetto del diritto? Per quali sentieri – o strade interrotte – passano colpa e pentimento? Quali i doveri del singolo di fronte alla comunità, della comunità di fronte al singolo?

Nel Novecento domande come queste sono state portate a picchi di vertigine e paradossalità inimmaginabili persino rispetto a ciò che il pensiero moderno credeva di pensare di sé stesso, ma che segretamente portava in grembo. Oggi, più che a singoli uomini, una versione semplificata di queste domande è affidata all’apparato perché ne faccia strame, a una macchina mondiale leggera, potente e priva di pietà.

Non rifuggo il peggiore degli uomini. Mi interessa e non in quanto peggiore. Non odio l’uomo con la sua imbecillità. Odio la macchina. Tuttavia non sono Max Stirner, non sono Vincent van Gogh, non sono Antonin Artaud, non ho la forza di prendere le armi in solitudine contro un mare di merda con la certezza che il mio annegamento giovi a una buona causa, e a questo si aggiunge il sospetto che la zavorra delle mie mediocrità mi porti (paradosso per paradosso) a galleggiare sulla merda più che andare a picco.

Spero ribolla in me quel che resta di Amleto e Simone Weil, ma c’è anche, incontestabile, la gigantografia di Adolfo Suárez, l’eroe medio di Javier Cercas.

Il coro

Per questo il coro.

La mia Città dei vivi è infatti molto affollata. Ho trascorso quattro anni in giro per Roma a raccogliere materiale e documenti, ma soprattutto a incontrare gente, a fare domande, ho incontrato gestori di locali, piccoli commercianti, travestiti, spacciatori, senatori, carabinieri, baristi, dentisti, disoccupati, prostituti, educatori, avvocati, magistrati, agenti immobiliari, assicuratori, carrozzieri, ristoratori... Queste persone svolgono nel mio libro la funzione del coro. Ciò che non ho la forza di portare avanti come singolo, lo affido a questo gruppo di persone.

Qualche lettore mi ha fatto notare che, a differenza di ciò che accadrebbe nel modello classico, questo coro difende molto sé stesso. All’occorrenza si chiude a riccio, dice e non dice, ma a volte rivela più di quanto non vorrebbe, e molto più di quanto sia lecito aspettarsi.

Sicuramente ho guardato a maestri che negli anni hanno usato mirabilmente questa strategia, sia nella non fiction (Svetlana Aleksievic in Preghiera per Černobyl’, per esempio) che nei romanzi d’invenzione (Roberto Bolaño nella seconda parte de I detective selvaggi). Trovo che questa coralità rispecchi il nostro tempo. Non è la rete (dal mare aperto dei siti internet, a Twitter, Instagram e Facebook, ai nostri gruppi WhatsApp) il modello dominante? Con la differenza che quella del mondo digitale è una rete acefala, all’occorrenza ultraviolenta, viscerale, al tempo stesso in mano ai padroni del mondo, mentre un certo tipo di coralità in letteratura può riportare il caos a una richiesta di senso, l’amoralità all’urgenza di domande che è giusto continuino a lacerarci.

Un rituale

Sarei un ipocrita se non ammettessi, però, che questo coro svolge anche una funzione rituale. Qui c’è l’arbitrio dello scrittore, la sua illusione e il suo povero delirio. È successo qualcosa di malvagio, qualcuno ha descritto la morte di Luca Varani come un omicidio rituale. Allora io rispondo con un rituale di segno opposto, un gesto collettivo più che un insieme di testimonianze, magia bianca contro magia nera, decine di voci riorganizzate in forma di preghiera collettiva. Per fare cosa? Per contribuire a smontare persino in modo sgangherato la dinamica circolare di violenza e sopraffazione? Per propiziare l’incontro che finora non c’è mai stato tra le famiglie dei ragazzi coinvolti in questa tragedia? Come posso sperarlo? Come posso anche solo sognare che un libro svolga, in questo senso, una funzione trasformativa, o meglio apotropaica? C’è infine, opposta a quella del coro, una dimensione individuale, la solitudine dello scrittore che – parallela alle altre dimensioni – deve scorrere in ogni libro di questo tipo.

Mentre indagavo sull’omicidio di Luca Varani, mi sono dato delle regole che credo di avere rispettato. Una riguarda la misura. Ogni volta che non avevo sufficiente documentazione per spingermi più in là nel racconto, e ogni volta che, in questa discesa in fondo al mare, la mia struttura di essere umano per come sono riuscito a costruirmela non era sufficiente (ogni volta che la mia tuta di palombaro rischiava di venire schiacciata dalla pressione; o, detta altrimenti, ogni volta che la mia apertura mentale, il mio talento, la mia audacia, le mie capacità intellettive, il mio spirito di immedesimazione, la mia prensilità emotiva trovavano il loro limite) mi sono fermato e l’ho dichiarato.

Vi porto fino a questa soglia. Non sono più bravo di così. Per descrivere quello che c’è oltre, dovrei ricorrere agli strumenti della mistificazione. Resto per onestà su questo gradino. Più giù non posso scendere. Se volete, da qui in poi fate da soli.

In stato di trance

Opposta al rispetto della misura, c’è una furia di senso opposto. Inutile negarlo. Mentre indagavo sull’omicidio ero spesso in uno stato di trance. Mi sentivo parte in causa, coinvolto nella vicenda come se avesse colpito me, in diritto per questo di saperne di più. Sentivo proprio un’energia, una forza interiore, che di solito non ho. È stato questo a farmi andare in posti in cui di norma non mi sarei recato, e soprattutto a farmi vincere un’antica, colpevole timidezza, portandomi a cercare persone fino a quel momento sconosciute – persone davvero travolte dalla tragedia – per fare domande che in un altro stato emotivo non avrei avuto il coraggio di porre. Da dove viene questa forza che già adesso – finito il libro – non mi sento più addosso?

Sempre Walter Siti, molti anni fa, non so se lo ricorda, durante un incontro pubblico disse che uno scrittore non deve per forza scrivere solo di ciò che ha vissuto, ma a una condizione: può non averlo vissuto, ma deve esserselo meritato. Non devo avere ammazzato qualcuno o essere stato vittima di un’azione violenta per descrivere un crimine, ma devo essermi meritato il caos e la sofferenza che un evento simile scatenano intorno a sé. Mentre scrivevo La città dei vivi sono morti due miei amici, a cui ho dedicato il libro. Ancora non riesco a credere che siano morti. Rileggo a volte i loro sms, le mail che ci scambiavamo. Ogni tanto ho l’istinto di afferrare il telefonino e di chiamarli. Pretendendo di poter raccontare questa storia, ho segretamente creduto che il mio dolore privato – ridotto al proprio nucleo irriducibile – mi affratellasse con un altro tipo di dolore? O mi serviva una scusa? Spero di non essere così misero.

E tuttavia sospetto che la morte di Luca Varani, e la morte dei miei amici, abbiano riacceso in me una rabbia molto più antica, la rabbia intorno a cui – in mancanza di altro – ho dovuto costruire per non soccombere la mia identità di uomo, come una casa senza fondamenta e un albero senza radici.

© Riproduzione riservata