La mostra per i 50 anni di Radio Popolare, che s’inaugura domenica 14 dicembre, è fatta da una lunga traccia cronologica che scandisce con le foto la storia di radiopop. Ma se guardate bene scandisce la storia di questo mezzo secolo. E racconta di una realtà che ha capito che l’indipendenza economica era l’unica via per essere liberi
Provate a immaginare una carta d’identità così fatta. Nome: Radio Popolare. Data di nascita: 24/12/1975. Professione: radio libera da 50 anni. Nazionalità: mondo. E la foto su quel documento è firmata da Gianni Berengo Gardin. Straordinario ma vero: anzi, ci sono scatti anche di Mario Dondero, Uliano Lucas, Gabriele Basilico…
La mostra e la storia
La mostra per i 50 anni di Radio Popolare, che s’inaugura domenica 14 dicembre, è solo un tassello di un compleanno importante; si sviluppa su due piani allo Spazio Cisterne della Fabbrica del Vapore, a Milano. E oltre agli scatti di questi numi tutelari della fotografia, presenta gigantografie dei lavoratori dell’emittente, un po’ come i ritratti parlanti del Castello di Hogwarts. Una lunga traccia cronologica scandisce con le foto la storia di radiopop, ma se guardate bene scandisce la storia di questo mezzo secolo.
Radio Popolare non poteva che nascere a Milano, a metà degli anni Settanta: con «le sue luci gialle e i suoi cortei», per raccontare «la musica sull’erba, le spranghe sui fascisti e le pietre sui gipponi», dove facevi «una domanda in tedesco e ti rispondevano in siciliano» (semicit.)
Radio Popolare è stata figlia di quei movimenti sociali e politici degli anni Settanta ed è riuscita, grazie all’intuizione e la severità di Piero Scaramucci, a garantire un angolo di visuale non conformista sui fatti del mondo. Mentre nelle piazze e nelle assemblee volavano mazzate quell’emittente ricreava un terreno neutrale dove le divisioni ideologiche (a volte anche i deliri egocentrici) si annullavano per un bene comune superiore: essere la voce di chi non ha voce.
È solo uno slogan? Forse, ma Radio Popolare c’è riuscita, altri no. Provate a pescare una cassetta a caso (spiegazione per la Gen Z: trattasi di oggetti di plastica in cui si registravano interviste e trasmissioni) dal suo archivio e ascoltate: non troverete un politico che pontifica, un finanziere che spiega come investire in borsa, l’influencer di allora che sproloquia; troverete le interviste ai cortei, il lavoratore in sciopero, l’intellettuale che si sporca le mani nella realtà.
Un esempio forse ai più sconosciuto: qualche mese prima dell’89 – l’anno del crollo dell’ex Impero Sovietico – l’allora redattore di Radio Popolare Paolo Hutter, intuendo cosa stava per accadere, contattò studenti nelle facoltà di italianistica di Berlino Est, Praga, Sofia, Bucarest e Mosca. E così molto prima degli inviati da hotel a 5 stelle degli altri giornali, Radio Popolare aveva una crew di reporter perfettamente a loro agio tra la gente che stava cambiando la Storia.
Giornalismo rivoluzionario
Ecco spiegato perché fotografi di fama – gli stessi che vedrete in mostra – decisero di fare reportage su Radio Popolare: non era un fenomeno passeggero ma una interpretazione moderna e per certi versi rivoluzionaria di giornalismo.
Quando non c’era ancora il duopolio Fininvest-Rai, prima del flagello dell’infotainment, il mondo editoriale era monopolizzato da un perbenismo reazionario, impermeabile alle novità che salivano dal basso. La sentenza della Corte Costituzionale del 1976 che aprì le porte alle radio libere permise la nascita di migliaia di radio. La logica dei cento fiori. E come i fiori, la gran parte delle radio appassì.
Sono rimaste vive due tipologie: chi ha impresso una svolta commerciale, chi ha – casi rarissimi – capito che l’indipendenza economica era precondizione per l’indipendenza editoriale. Radio Popolare ha scelto la seconda strada, fin dall’inizio.
Collette, tessere, mercatini dell’usato e poi, strumenti leggermente più complessi ma che si fondavano su un semplice presupposto: si rivolgevano agli ascoltatori spiegando loro che la libertà ha un costo. Miracolo? No è la forza ancestrale della comunità. Un mezzo che si può ascoltare gratis viene sostenuto ora da oltre 15.000 ascoltatori che pagano un piccolo prezzo per godere del diritto di essere informati. Ovvero di essere liberi.
Danilo De Biasio, direttore di Fondazione Diritti Umani, per trent’anni giornalista di Radio Popolare
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