È morto a Genova all’età di 94 anni. Dalle immagini della sua laguna a quelle nei manicomi che sono state importanti per l’approvazione della legge Basaglia. Scatto dopo scatto, la sua pellicola ha reso limpido e leggibile il secondo Novecento italiano
Gianni Berengo Gardin nacque a Santa Margherita Ligure il 10 ottobre 1930, ma la sua infanzia fu lagunare: le prime forme che gli riempirono gli occhi non furono fotografie, bensì rosette di vetro, conterie minute, perle “a lume” modellate sul fuoco.
Quei grani colorati affondavano le radici nel Quattrocento, quando Marietta Barovier insegnò a sovrapporre strati policromi per creare la rosetta; due secoli più tardi, 22 fornaci di Murano sfornavano fino a 19 tonnellate di perle alla settimana, destinate ai porti di Cadice, Liverpool e Lisbona e, di lì, ai mercati d’Africa e d’America.
La famiglia gestiva un negozio di collane in Calle Larga San Marco: chi pronunciava “Berengo Gardin”, allora, pensava a vetri e monili, non a pellicole. Gianni ricordava quel banco con nostalgia: «Oggi al posto della bottega c’è un caffè». Eppure proprio fra le impiraresse chine a infilare fili interminabili egli imparò che la realtà è un tessuto di gesti minimi ripetuti, le stesse cadenze che governeranno la camera oscura.
La consacrazione
A vent’anni abbracciò la prima Leica, futura compagna inseparabile «ne possiedo 22» rideva a novant’anni, e, grazie all’incoraggiamento di un critico svizzero, lasciò Venezia per Milano. Prima, però, visse qualche anno a Parigi: mattinate in albergo per mantenersi, pomeriggi a caccia d’immagini, l’amicizia con Willy Ronis e l’ammirazione per Life e Dorothea Lange.
Con Robert Doisneau l’intesa si ruppe, «troppo costruite le sue foto», mentre con Cartier-Bresson, conosciuto più tardi grazie a Ferdinando Scianna, nacque un rispetto reciproco suggellato da una dedica: “À Gianni, avec sympathie et admiration”.
Nel 1960 il suo colpo d’occhio trovò la consacrazione. Sul vaporetto che dal Lido porta a San Marco, alle otto del mattino, vide la città specchiarsi nei vetri della porta accanto all’impermeabile scuro di un passeggero; scattò un’unica volta. Henri Cartier-Bresson incluse quell’immagine fra le cento fotografie capitali del Novecento, e Gianni commentò: «Se l’uomo avesse avuto il cappotto bianco non avrebbe funzionato».
Trasferitosi stabilmente a Milano nel 1965, collaborò con Touring Club, De Agostini, Alfa Romeo. Per Adriano Olivetti fotografò asili, biblioteche e linee di montaggio, restituendo l’utopia di una fabbrica-comunità dove contavano le persone più delle macchine. Tre anni dopo, su richiesta di Franco Basaglia e con Carla Cerati, entrò di nascosto nei manicomi italiani: il libro Morire di classe (1969) diventò miccia per la legge 180 e la chiusura degli ospedali psichiatrici.
La pellicola come religione
Dal 1979 seguì Renzo Piano nei cantieri del mondo, accumulando oltre 10mila negativi: «Sono più belle le ossa che il corpo finito» scherzava l’architetto, e Berengo Gardin faceva proprie quelle ossature di acciaio abitate dagli operai. Nel 2013 tornò a battersi per la sua laguna con il reportage Mostri a Venezia, denuncia contro le grandi navi che sfiorano il Bacino di San Marco.
La pellicola restò la sua religione: 45 anni in camera oscura, il culto dell’attesa, il piacere del lentino sui provini. Amava la Lettera 22 “tic-tac” dei martelletti che riserva alle lettere d’amicizia, e diffidava delle e-mail. Ai giovani ricordava che prima si pensa e poi si scatta, «una foto e basta».
Persino i baci, da lui inseguiti sotto portici e cornici veneziane, nascevano da quell’etica dello sguardo: negli anni Cinquanta baciarsi in pubblico era ancora oltraggio al pudore, e perciò il gesto vietato divenne per lui un frammento di verità da preservare.
Nel 2016 pubblicò con Hugo Pratt e Marco Steiner Il gioco delle perle di Venezia, intreccio di disegni, parole e immagini che evocava la vecchia bottega di famiglia trasformando la città-labirinto in una caccia al tesoro emotiva. Si è spento oggi a Genova all’età di 94 anni; il suo mare sembra aver perso un riflesso. Eppure, ogni volta che un suo scatto si accende in una sala d’esposizione, la luce penetra, si moltiplica negli strati d’argento e ritorna trasformata, proprio come fanno le perle veneziane.
Le fotografie di Gianni Berengo Gardin, rosette che custodiscono il colore della storia, perle di vetro nitide e misteriose, galleggiano fra noi e il tempo, infilate in una collana senza fine. Talvolta, quando ci avviciniamo troppo, la realtà si curva come dentro una lente e si lascia distorcere; altre volte, grazie a quel medesimo vetro, ci appare per la prima volta perfettamente a fuoco.
Così, scatto dopo scatto, la sua pellicola ha reso limpido e leggibile il secondo Novecento italiano, consegnandocelo con la chiarezza di uno sguardo che non conosce crepe.
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