Quando è nata Tinder, l’ormai nota dating app basata su geolocalizzazione, per un periodo limitato la si è usata per quello che era: un catalogo di carne umana da spulciare per la storia di una notte. Il dito sfogliava facce e pettorali (o facce e tette, all’inverso) fino a trovare materiale apprezzato, spendibile in un sabato sera, non necessariamente più a lungo.

Ma poi, inesorabilmente, l’app si è adattata alla necessità primaria dell’essere umano: la ricerca di una compagnia stabile, dell’illusione di non essere soli dentro un mondo labile e spaventoso. Insomma, su Tinder non si andava improvvisamente più esclusivamente a caccia di partner sessuali ma anche di partner di vita.

Così proliferavano le prime coppie nate su Tinder, cosa all’inizio tenuta nascosta (soprattutto in Italia, paese ancora bigotto) perché era l’equivalente moderno della favola prettywoman: un amore che nasce in territori esclusivamente sessuali, per poi riscattarsi con la scintilla di un’infatuazione. Così quando scattava la serietà, il desiderio di coppia, uno/a dei due diceva all’altro/a: diciamo che ci siamo conosciuti a una mostra, a un party, a casa di amici.

Diciamo, cioè, che non siamo mai stati soli, non così tanto da iscriverci a Tinder, che è una cosa vergognosa, è lo spettro degli “annunci per cuori solitari” di una volta che incontra il mostro ancora mal visto della virtualità. Perché insomma: la solitudine è ancor più vergognosa del sesso.

Infine, recentemente, nell’arco degli ultimi due anni, è avvenuto un altro smottamento, uno scivolamento affettivo: l’isolamento della pandemia ha portato nel mondo delle dating app anche chi non avrebbe mai pensato di voler creare un account.

Mentre il concetto di virtualità diventava domestico, familiare, spogliandosi dal perturbante freudiano e vestendosi di copertine di paille e intimità da lockdown, anche i sostenitori più incalliti degli incontri dal vivo (almeno i single, ma non solo) si sono ritrovati a cercare l’anima gemella in uno schermo. Incontri dal vivo: non vi suona già strana, quest’espressione? Irl, in real life, nella vita reale, dicono più agilmente in America: già l’esistenza di un acronimo apposito testimonia il dualismo vero e proprio che lì è venuto a crearsi nell’insediamento della tecnologia all’interno dei rapporti umani.

E mentre morivano gli incontri nei bar, alle feste, nel posto di lavoro, con il loro linguaggio tradizionale e le loro tradizionali goffaggini da primo impatto, cosa ne è stato del concetto di “anima gemella”, splendidamente datato, eppure misteriosamente sopravvissuto, almeno linguisticamente, fino a tempi recenti?

La coppia perfetta

Una risposta possibile l’hanno data due serie tv anglofone, uscite quasi contemporaneamente (una su Netflix, l’altra su Amazon Prime). Si tratta di The one (La coppia quasi perfetta, in italiano) e Soulmates: due serie tv basate sulla stessa idea, ma sviluppata in due modi opposti: l’idea è che la tecnologia, in un vicino futuro, riesca a trovare il modo di individuare l’anima gemella di chiunque si sottoponga a un test (genetico, nel caso di The one, in Soulmates invece intravediamo un paio di volte degli elettrodi posti sulla testa dei pazienti).

In The one, serie da ogni punto di vista mediocre creta da Howard Overman, la scoperta del fantomatico amore ribalta ogni cosa e ogni matrimonio, come d’altronde ci si aspetterebbe secondo le narrazioni a cui siamo abituati, dalle parabole Disney alle commedie americane.

Narrazioni che dall’alba dei tempi ci abituano al concetto di predestinazione romantica, assoluta e inequivocabile e impossibile da problematizzare (non confondiamoci con i classici della letteratura, che da sempre ci hanno parlato di amore conflittuale).

In più, il tema è sviluppato in modo così superficiale che sembra esaurirsi in accoppiamenti arbitrari di persone dissimili unite da una misteriosa intesa sessuale, il tutto mentre la serie si trasforma inesorabilmente in un poliziesco improbabile dotato di dialoghi ingenui e fotografia discutibile.

Diversa la questione Soulmates: scritta da William Bridges, che già conoscevamo per quel prodotto geniale che è BlackMirror (ok, tranne l’ultima stagione), insieme a Brett Goldstein, la serie, a partire dallo stesso traguardo scientifico, non racconta il trionfo dell’amore ma il suo fallimento: nei sei episodi auto-conclusivi, tutti i personaggi scelgono di rifiutare l’idea di amore predestinato e di abbracciare un concetto d’amore più laico, radicato nel liberto arbitrio, nelle scelte e nelle condivisioni che stanno alla base dei partner che scegliamo.

Quelli stabiliti dal sistema sono sempre affini, nel bene e nel male, ma chi l’ha detto che dobbiamo scegliere la persona somigliante, l’affinità? Così, ad esempio, la donna violenta non sceglie l’uomo violento, preferendo non vedere quella parte di sé rispecchiata in un altro, e la donna con un matrimonio mite ma pieno d’amore sceglie di continuare a fare quell’investimento (sì, l’amore è anche un investimento, non solo la semplicità adrenalinica di un match), salvo scoprire che il marito aveva fatto la scelta opposta: la semplicità della passione e non la fatica di un rapporto scelto ogni giorno.

Oppure, due amanti scelgono di rinunciare alla loro unione ma di arricchirla con quella predestinata: una fantastica coppia a quattro, complicata sì, ma legittimata da un sentimento comune, e dalla consapevolezza entusiasmante che siamo liberi di amare non solo chi vogliamo ma anche quante persone vogliamo. Così anche il ragazzo che vola in cerca del match decide di restare con uno sconosciuto un po’ allo sbaraglio che lo ha derubato, perché qualcosa è nato e non nell’affinità: nella diversità, nel confronto.

Cosa cerchiamo davvero

L’anima gemella immaginata da Bridges è lo specchio d’acqua in cui Narciso finisce per affogare: è la somiglianza letale che abbiamo appreso dagli algoritmi angusti dei social, che ci impedisce la crescita e ci attanaglia a un’affettività adolescente, a una brama di vederci replicati negli altri: è il sospiro malinconico di Sylvia Plath che faceva «un respiro profondo» e ascoltava «la vecchia vanteria del cuore: Io sono, io sono, io sono».

La fede nell’amore non dev’essere per forza cieca, si può scegliere di vedere, osservare, affermando in questo modo la nostra libertà. La predestinazione implica una passività che non siamo costretti ad apprezzare.

Ogni attimo della nostra vita, infatti, abbiamo la possibilità di scegliere chi avere accanto, rifiutando qualsiasi costrizione, persino genetica (da chi ci ha generato a chi, secondo gli sceneggiatori di The one, dovrebbe starci accanto) e sarà così anche se e quando Tinder (e tutte le altre dating app) si saranno trasformate in generatori automatici di accoppiamenti perfetti.

Dopotutto Bridges ci aveva già azzeccato su alcune profezie di Black Mirror. È troppo presto per dire come batteranno, dopo la pandemia, i nostri cuori affamati di affinità (balbetteranno sempre “io sono” o riusciranno a dire, finalmente, “tu sei?”), ma possiamo cogliere questa sospensione di realtà per interrogarci su cosa cerchiamo davvero in un amore: quanta somiglianza, nel bene e nel male, e quanto attrito e differenza, che ci porterà un po’ fuori da noi stessi, verso il mondo, che è tanto più ampio e arioso della nostra testa.

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