Dei carcerati non si sa niente. Un anno fa, nelle stesse ore in cui il governo Conte decideva di rinchiudere in casa tutti i cittadini per salvarli dalla pandemia, in decine di prigioni italiane – Modena, Ascoli, Lecce, Foggia – scattò una rivolta con pochi precedenti e molti morti di cui ancora si discute. I detenuti incendiarono le celle, distrussero ali intere, fuggirono in massa. A un anno di distanza parecchi istituti devono ancora riprendersi dalle ferite di quel giorno, eppure una cosa è tornata esattamente come prima: l’ignoranza generale su cosa sia e come funzioni il carcere in Italia.

Un’idea approssimativa

Si può iniziare dai numeri: 60mila detenuti, la popolazione di Viareggio; una capienza ufficiale di 47mila, che si traduce in celle stipate all’inverosimile; il 70 per cento degli scarcerati che torna dietro le sbarre entro un anno (la famosa “recidiva”); un terzo di detenuti stranieri; un quarto di tossicodipendenti; decine di bambini rinchiusi fino ai sei anni... Quante volte abbiamo sentito questi numeri? Non poche, eppure conoscerli non ci ha spinto a chiedere un intervento radicale su un sistema ormai degradato, nonostante la legislazione italiana in materia sia tra le più illuminate al mondo. Il fatto è che attuarla è molto difficile, tra problemi di budget e incertezze politiche. Ma soprattutto, il carcere è così lontano dall’esperienza della stragrande maggioranza dei cittadini da venire continuamente dimenticato. Ed ecco perché il primo passo per migliorarlo è conoscerlo.

Alla fine dei conti, la nostra idea della vita dietro le sbarre si riduce a ciò che vediamo al cinema o in tv. Le ali della libertà, Il miglio verde, Prison Break, Orange is the New Black… Il carcere nel nostro immaginario parla inglese, ed è ben più avventuroso e patinato della realtà raccontata dai pochi giornalisti che periodicamente ottengono il permesso di entrare nei 191 istituti di pena sparsi per la penisola. Una realtà fatta di celle con tre metri quadri per detenuto, di servizi igienici aperti a una spanna dalle brande, di muri gelidi in inverno e roventi in estate, di ore d’aria consumate in cortili chiusi dove l’orizzonte non supera i trenta metri (e difatti la vista dei detenuti si deteriora rapidamente). Una realtà in cui, nonostante lo scopo della pena non sia penare ma riformarsi, possibilmente imparando un mestiere, i carcerati hanno pochissimo da fare. Solo una piccola frazione accede a qualche forma di lavoro, ed è un peccato, perché i numeri della recidiva sono chiari: dal 70 per cento si scende al 20 se una volta fuori l’ex detenuto trova lavoro, e addirittura all’1 per cento se un lavoro l’aveva già dentro. (Statistiche prese da Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, Laterza 2020).

Sono cose che sanno solo gli specialisti, e non dovrebbe essere così. Tutti dovrebbero vedere il carcere da dentro almeno una volta. In Italia si fanno visite guidate a ogni genere di istituto, ma mai a quelli penitenziari, e forse sarebbe il caso. Nel frattempo, per fortuna, esiste almeno un modo efficace di organizzare visite virtuali alle carceri: la letteratura. La letteratura si occupa di questi argomenti dall’alba dei tempi – dal conte Ugolino al Conte di Montecristo – e con il Novecento, secolo di lotte politiche e guerre civili, ha prestato sempre più attenzione e voce al racconto di ciò che accade nelle patrie galere, fino a diventarne un mezzo conoscitivo prioritario. In Italia, negli ultimi vent’anni, sono usciti libri eccezionali come quello di Sandro Bonvissuto, che in Dentro racconta un’esperienza dietro le sbarre che diventa ritratto corale: il detenuto che non si fa lavare i panni a casa perché il cane sentirebbe il suo odore e impazzirebbe; quello che una volta uscito non riesce più a mangiare con posate di ferro e deve usare le mani nude; quello che non lascia mai la sua cella tranne, ogni tanto, per uscire in cortile a piantare il naso a un centimetro dal muro, l’unico modo per non vederlo più («Il muro è il più spaventoso strumento di violenza. Non si è mai evoluto, perché è nato perfetto»).

Ma anche Rosella Postorino nel romanzo Il corpo docile affronta con occhio impietoso un aspetto tra i più vergognosi del nostro sistema: la presenza nelle carceri di neonati e bambini, costretti da una legge lacunosa a vivere rinchiusi con le madri condannate, cui vengono poi tolti quando raggiungono i sei anni. Milena, la protagonista, ha vissuto sulla propria pelle questo dramma, e una volta cresciuta è entrata in un’associazione di volontari che a quei bambini cerca di portare un po’ di luce (perché il carcere è un luogo buissimo, dentro e fuor di metafora). Ma come evitare che i muri che li rinchiudono negli anni più importanti per la crescita diventino muri interiori? «Se la prigione è il posto di chi è stato cattivo, basta essere cattivi per tornarci» si ripete Milena bambina. «Comportarsi male, per tornare nel nido delle suore, e dormire di nuovo con la mamma».

Forme di vita inferiori

Valeria Parrella, in quell’Almarina già finalista al premio Strega 2020, racconta un’altra forma di volontariato romanzando la sua esperienza come insegnante nel carcere minorile di Nisida, l’incantevole isola alla fonda nel mare di Posillipo. Peccato che l’incanto manchi del tutto nella vita dei minori che vi sono rinchiusi, condannati a «un dolore che non finisce, da cui non puoi mai distrarti». Perché «Chiunque varchi la porta di un carcere lo sa (e se non lo sa, lo sente) che sta passando da un’altra parte inconciliabile con la promessa che ci fecero da bambini: che la vita non avrebbe fatto paura, e non saremmo mai rimasti soli. Il carcere invece è paura e solitudine. In carcere ti addormenti e quando ti svegli sei in carcere. In carcere impari presto che meno fai meglio è». Proprio il contrario di ciò che dovremmo insegnare a quei ragazzi per evitare che i cancelli della prigione si trasformino in porte girevoli.

A descrivere e divulgare questa emergenza civile perenne si è impegnata anche la narrativa criminale, i cui autori spesso l’hanno conosciuta personalmente. Massimo Carlotto, maestro del noir mediterraneo e a suo tempo celebre caso giudiziario, ha raccontato il carcere in molti modi nelle avventure dell’Alligatore, ex detenuto che lavora come investigatore privato senza dimenticare il suo passato criminale, né le violenze subite dietro le sbarre, rievocate in uno degli episodi più riusciti della serie, Il maestro di nodi. Igor De Amicis, invece, il carcere lo ha frequentato dal versante opposto, come commissario capo di polizia penitenziaria, e nel thriller La settima lapide mette in scena un protagonista che dopo vent’anni al gabbio ha ottenuto la libertà anticipata ed è deciso a ripartire con una vita differente. Ma una volta fuori è molto difficile liberarsi dalle abitudini del passato, e l’autore si interroga sulla reale capacità dell’istituzione di restituire al mondo uomini e donne riformati, pronti a reintegrarsi nella società.

Ad alleggerire i toni – ridere sì, ma sul serio, diceva Umberto Eco – ci ha provato da ultimo Marco Malvaldi, il giallista toscano padre del BarLume, che insieme a un detenuto vero, Glay Ghammouri, ha scritto una commedia penitenziaria sulla quotidianità dei condannati. A tratti Vento in scatola sembra quasi un manuale in cui apprendere il meccanismo che regola le varie mansioni (lo scopino, lo spesino), il comportamento da tenere con gli agenti (mai chiamarlisecondini!), il modo corretto di compilare una richiesta (la domandina). E tra un sorriso e l’altro viene un po’ di amarezza nell’accorgersi che tutto, dietro le sbarre, è rimpicciolito, ribattezzato con diminutivi dal sapore infantile che sembrano voler ridurre i carcerati a forme di vita inferiore. Figli di un dio minore, recitava il titolo di un film famoso, ma se un giorno fossimo noi, quelli rinchiusi dietro le sbarre? Se fossero i nostri figli? Forse dovremmo iniziare a pensarci adesso. Forse dovremmo invocare subito l’intervento di un dio maggiore.

© Riproduzione riservata