Ci risiamo. Il tentato omicidio di Salman Rushdie allunga la lista di attentati che hanno insanguinato la cronaca degli ultimi decenni.

Il nervo scoperto è sempre lo stesso: la critica nei confronti dell’islam. Tema di una portata simbolica enorme, capace come pochi di scaldare gli animi. In Europa vengono in mente le vignette di Charlie Hebdo, il caso di Theo van Gogh, e, più recentemente, del professore francese Samuel Paty, ma in realtà la questione è mondiale.

E I versetti satanici di Rushdie può vantare un primato: quello di primo caso di blasfemia globalizzata. Fino a quel momento, quello che si pubblicava a Londra, Parigi o Roma passava inosservato nel mondo musulmano, e viceversa.

Tra arte e religione

Nel 1989, con la fatwa di Khomeini scoprimmo di colpo che la tecnologia non ci consentiva più di ignorarci. E con il crescere dell’interconnessione è cresciuta esponenzialmente la possibilità di incidenti, riproponendo il dilemma tra libertà di creazione artistica e rispetto del sentimento religioso.

Per sgombrare il campo da ogni ambiguità, il libro di Rushdie è offensivo verso il credo musulmano. I versetti satanici del titolo si riferiscono a un racconto conservato dall’influente esegeta medievale al Tabari, secondo cui Muhammad avrebbe ricevuto una falsa rivelazione da parte di Satana (due versetti della sura 53), prima che l’arcangelo Gabriele intervenisse a correggere l’errore. In Rushdie però questo episodio è utilizzato per affermare, dietro il tenuissimo velo di una visione onirica, la falsità della pretesa profetica di Muhammad, accompagnata da offese verso le sue mogli e il Corano: insomma, ci sono tutti gli elementi per far inorridire i musulmani.

La risposta di Khomeini

Sappiamo bene quale fu la risposta di Khomeini – incidentalmente, ma non troppo, satireggiato lui pure nel romanzo con il nome di The Imam – ora tragicamente attuata da un giovane libanese simpatizzante di Hezbollah, giusto per ricordarci i nessi organici che uniscono il libanese Partito di Dio al suo sponsor iraniano.

Sarebbe però troppo facile liquidare l’episodio con un colpo di testa di Khomeini. In realtà, l’idea è ben radicata nella giurisprudenza islamica medievale: la Spada sguainata contro chiunque insulti il Profeta è il titolo, quanto mai esplicito, di un celebre trattato del giurista medievale Ibn Taymiyya (m. 1328), molto in voga nel web. Oggi naturalmente i leader musulmani ufficiali evitano di citare i propositi incendiari di Ibn Taymiyya.

Crimine di blasfemia

Non sono più i tempi di Farag Foda, altro intellettuale egiziano accoltellato e ucciso nel 1992, quando l’influente shaykh Muhammad al-Ghazali si recò a testimoniare al processo contro i due aggressori difendendone l’operato.

D’altra parte però, sono pochi anche i pensatori o gruppi musulmani che, come il sito musulmano francese SaphirNews, prendono esplicitamente posizione contro il crimine di blasfemia. Almeno a giudicare dalle reazioni finora trapelate, la maggior parte delle autorità religiose ha scelto piuttosto la via del silenzio.

Ipocrisia? Non credo, non sempre. La globalizzazione è all’opera anche nel mondo musulmano e il problema del rapporto con il non credente (o diversamente credente) si pone con molta più forza che nel passato, quando le società erano omogenee. Tuttavia, questo cambiamento non ha finora investito la giurisprudenza. Se lo farà, saranno i musulmani a deciderlo e non spetta ai non musulmani indicare come.

La sottile linea tra critca e insulto

Il nostro compito è piuttosto quello di indicare l’esistenza del problema. In altre parole, che ce ne facciamo della Spada sguainata? A questo interrogativo ne aggiungo un secondo, questa volta rivolto all’Europa: posto che il ricorso alla violenza non è mai accettabile, fin dove può spingersi la legittima critica e dove comincia l’insulto gratuito?

Un inizio di risposta ce lo offre il domenicano Adrien Candiard in un libricino sulla tolleranza. La critica, anche dura, fa appello alla ragione dell’interlocutore, riconosciuto capace di verità; l’insulto fa leva sui sentimenti e squalifica l’avversario.

La strada per pensare la libertà di espressione in un mondo globalizzato passa da qui.

 

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