La cantautrice e producer 33enne, madre italiana e padre colombiano: «La mia canzone è un messaggio di fiducia in un periodo storico sempre più reazionario. Auguro a tutti di difendere la propria identità sempre». E sul duetto con Frah Quintale: «Noi troppo diversi? Credo nella fluidità di una musica che non necessita etichette». E ricorda le prime bocciature, quando aveva solo 18 anni
«Arrivare fino a qui è stato un percorso difficile, ma ho sempre avuto la consapevolezza che senza la musica non potevo vivere. Per me era proprio un’urgenza», dice Joan Thiele, 33 anni, mentre ci incontriamo negli studi di Sony Music. Per parlare sceglie una saletta insonorizzata: «Mettiamoci qui che ci sono le chitarre, il mio strumento del cuore da sempre». Dal corridoio arrivano delle voci, aspettiamo che passino. Scopriremo dopo che è il cantante Enrico Nigiotti, anche lui alle prese col suo nuovo progetto musicale.
Joan Thiele è cantautrice e producer, madre italiana e padre colombiano, il suo mondo spazia tra r&b, soul e contaminazioni jazz. Certe armonie ricordano le colonne sonore del cinema italiano degli Anni ’60 e ’70. Forse non a caso, a maggio 2023, ha vinto il David di Donatello come “Miglior canzone originale” per il brano Proiettili, tratto dal film Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Il 6 dicembre scorso è uscito Veleno, brano che anticipa il suo debutto in gara tra i big al prossimo Festival di Sanremo dove canterà Eco.

Che pezzo è?
Eco l’ho dedicata inizialmente a mio fratello, un messaggio di fiducia in un periodo storico sempre più reazionario. Un augurio che faccio anche a me stessa, e a chiunque si possa identificare. Affrontare le proprie paure, e difendere la propria identità sempre. Trovare il proprio posto e mai provare senso di omologazione, sentirsi in obbligo di essere uguali agli altri. In questo testo racconto la nostra infanzia, la nostra intimità e condivisione. Non credo sarei riuscita a portare a Sanremo un brano che non mi rappresenta.
Un pezzo che anticipa l’album Juanita, il primo in italiano.
Esce il 21 febbraio. Mi sono presa il mio tempo per vivere e raccontare quello che avevo dentro. Mi sono data un bacio sulla fronte, per rassicurare la bambina dentro di me. Le ho chiesto di fidarsi. Quando sei una ragazzina non hai paura, sogni e basta, immagini e inventi il futuro. E io ho fatto questo. Ho ascoltato e investigato le mie emozioni, una a una. E così ho abbracciato la mia chitarra, acceso l’amplificatore e ho iniziato ad urlare.
E che cosa ha imparato in questo viaggio musicale?
Cerco sempre qualcosa, ma non trovo mai davvero la risposta. Però non smetterò mai di farmi le domande, credo sia vitale questo per me. Sto provando ad accettare di non controllare sempre tutto.
Altro?
Sanremo mette alla prova. Non so se sono pronta alla super esposizione, ma sono consapevole del fatto che non si può piacere a tutti. Faccio musica ed esprimo idee, se non ti piaccio ascolti altro, però per quanto riguarda gli insulti sui social è una questione di educazione. E fatico a sopportarli.
Come ha iniziato a suonare?
La musica per me è urgenza, ma per diventare un vero mestiere la mia perseveranza è stata importante. I no dei bar dell’Alto Lago in cui vivevo sono serviti. Suonavo per strada e nei locali. Pagavano poco e suonavo tanto. Ho viaggiato, prima in Inghilterra, poi in Colombia. Sempre con la chitarra dietro. La strada è la scuola più dura. Ci vuole passione sì, ma anche tanto impegno.
Joan è il suo vero nome?
Il mio primo nome è Alessandra, il secondo è Joan. La considero la parte più libera, più fanciullesca di me, che mi dà la forza di essere più diretta nei testi. Un filtro.
C’è un brano che è stato centrale nella sua crescita di musicista?
Thank you dei Led Zeppelin. I Led Zeppelin in generale hanno segnato la mia gioventù. Alle scuole medie mi sono iscritta al corso di chitarra e da lì tutto è cambiato. Convinsi tutta la classe a fare il saggio sui Led Zeppelin e io mi esibii sull’assolo di Stairway to heaven.
A chi non la conosce, che cosa consiglia di ascoltare di suo?
Il brano Puta: “Mi chiamava puta, poi faceva un Padre Nostro, sai lui si sentiva a posto con sé, non è colpa tua, eri solo un po' distratto, ora a messa non ci vado più, io prego per me, io prego per me”. Ha avuto un significato gigantesco, è una canzone che parla di violenza, di sfaccettature della violenza. È stata difficile da scrivere, ma mi ha aiutato molto. Una sorta di rinascita nel sentirsi giudicati.
Chi l’ha ispirata per fare musica?
Sono sempre stata fan delle cantautrici Anni 60 e 70: Jony Mitchell, Joan Bites, i Led Zeppelin, i Beatles e anche Nina Simon. A un certo punto, sette anni fa, ho conosciuto anche David Crosby. Un amico chitarrista americano che suonava con lui mi ha portato a conoscerlo dopo il suo concerto, sul suo truck. Mi ha offerto un tè caldo, è stata un’esperienza indimenticabile. Peccato non ci sia più.
C’è una delusione che le è servita?
Sul Lago, quando il proprietario del bar in cui suonavo mi disse: “Questi 200 euro non te li meriti, dovevi suonare di più”. Avevo 18 anni, avevo dato il massimo, e fu dura da digerire.
Qual è il luogo dove sta bene?
Dipende dai miei stati d’animo, il Lago di Garda dove abita mia madre è uno di questi. Poi c’è Corsico, vicino Milano, da mia nonna, sebbene sia napoletana. E poi la Colombia, dove vive mio padre e una gran parte della mia famiglia. Di quel posto mi porto dietro la musica, i colori, l’allegria e la spensieratezza. A Sanremo spero di prendermi meno sul serio, voglio imparare la leggerezza, ma non ci riesco molto.
Perché?
Sono una maniaca del controllo, fatico molto.
C’è un Sanremo del passato che le è rimasto in testa?
Quello di Loredana Bertè sul palco col pancione che cantava Re.
Nella serata delle cover sarà accompagnata da Frah Quintale. Diverso da lei, musicalmente.
Sì, faremo un omaggio a Gino Paoli sulle note di Che cosa c’è. È un amico, e ci stimiamo. Ci troviamo in un momento storico in cui non ci sono più generi, credo nella fluidità di una musica che non necessita etichette. Seguo quello che sento.
Il suo punto debole qual è?
La voce, perché è la parte più intima di me. È lo specchio di ciò che canto, attraverso di lei devo trasmettere ciò che sento. E qualche volta sono in conflitto. Ci sono stati momenti del passato in cui l’ho quasi soffocata, tendevo a volerla nascondere. Ora ci sto lavorando, per accettarla. Farla sentire. Per come vivo la musica io è un esercizio quotidiano, non sempre ci riesco. Devo collegarmi con le emozioni, spero di riuscirci all’Ariston.
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