Confrontare la settimana quirinalizia con quella di Sanremo è diventato in questi giorni un luogo comune quasi obbligato per i giornalisti di costume, con accostamenti perigliosi tra Elisa e Casellati, tra Amadeus e Mattarella o forse Draghi, tra Morandi e Berlusconi e via così.

Certo l’accostamento fortuito tra i due eventi si presta a qualche considerazione se restringiamo l’obiettivo intorno alla loro resa televisiva: due share formidabili che hanno fatto passare in secondo piano fatti nazionali e internazionali di peso (minaccia di invasione dell’Ucraina, proteste studentesche, decisa piega verso il basso della curva pandemica).

Sono state due settimane di divertimento spettacolare, soprattutto per gli addetti: inviati che correvano su e giù per le strade davanti all’Ariston sperando di catturare Achille Lauro, o intorno alla gelateria Giolitti per incrociare Maurizio Lupi; maratone in cui bizantineggiare e cazzeggiare ad libitum sull’affanno declaratorio di Salvini, lunghe pomeridiane di Rai 1 in cui si chiedevano ad Al Bano giudizi sui rapper e su Checco Zalone. L’eterna vocazione italiana per la Commedia dell’arte.

Se c’è un dato un po’ più profondo (e realmente comune) è la passività del mezzo televisivo di fronte ai mutamenti, anzi alle mutazioni sociali: da una parte la sempre più marcata debolezza delle leadership, la crisi della democrazia rappresentativa; dall’altra le “questioni di genere” divenute ormai centrali nell’orizzonte dei giovani, il prevalere dei social su qualunque altro mezzo di comunicazione – questi temi giganteschi la tivù li tratta come fenomeni atmosferici di cui non c’è che da prendere atto, senza scavare troppo e senza tremore.

Contraddizioni eluse

Tutto è bene quel che finisce bene: Mattarella resta al suo posto come invocato alla Scala e in un’apostrofe di Benigni, Mahmood e Blanco vincono circonfusi dalla splendida voce maghrebina dell’uno e dalla giovinezza dell’altro, andranno all’Eurovision dove già trionfarono i Måneskin.

L’unanimismo di Rai 1 gioisce che ci sia stato a Sanremo «un abbraccio tra le generazioni», i democristiani ormai equamente distribuiti nell’emiciclo si congratulano in cuor loro del centrismo riaffermato, sia pure col sacrificio di Casini.

Vale la pena, forse, di accennare alle contraddizioni eluse, ai problemi che le due settimane hanno aperto senza quasi accorgersene. Primo tra tutti, ancora una volta, quello dell’impegno. Che l’impegno sia diventato (anche) una potente forma di evasione è innegabile, e a Sanremo lo hanno usato a piene mani.

Antirazzismo, antimafia, antiomofobia, antibullismo; applausi alla bontà, al cuore, alla condivisione, al patriottismo, ai migranti, al libero pensiero, al francescano Cantico delle creature 2.0 di Mariangela Gualtieri, alle donne, alla promiscuità sessuale, alla famiglia.

Più inclusivi e generici di qualsiasi politico in cerca di voti. Il leitmotiv era “abbiamo finalmente bisogno di un po’ di leggerezza” e allora vai coi problemi e le tragedie delle vittime (c’è voluta Sabrina Ferilli, l’ultima sera, per riderci sopra con semplicità popolana, riconoscendosi bella donna a cui piace piacere e «con un marito benestante»).

Lorena Cesarini (attrice di Suburra), dopo aver dichiarato a un settimanale «non ha senso che io al Festival faccia la predica sull’integrazione» ha poi riso e pianto su questo in modo imbarazzante, potenza dei copioni. Quella che è mancata, al solito, è stata la capacità di distinguere e di passare dalla retorica alla realtà, o almeno all’arte.

Social e tivù

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Mi ha molto colpito, a proposito del rapporto tra social e tivù, vedere un video che Saviano ha postato su Instagram la notte in cui ha fatto il suo intervento sul palco dell’Ariston; era l’una e quaranta, Roberto Saviano era stanchissimo ma non riusciva a dormire e chiedeva ai follower se il suo intervento fosse piaciuto; mi sono sentito stringere il cuore di fronte alla solitudine denunciata da quel gesto – lì si capiva la differenza tra applaudire retoricamente in sala, senza pagare dazio e lavandosi la coscienza in pace (chi, oggi in Italia, osa dire che Falcone e Borsellino non siano eroi ?) e invece mettere in pratica, fino a rovinarsi la vita come Saviano ha fatto e sta facendo, il coraggio di cui Falcone e Borsellino sono stati esempio.

Dal chiacchiericcio all’emozione, i social possono fare anche questo. Su un piano infinitamente minore, ma con lo stesso bisogno di chiarezza estetica, come si fa a confondere qualche ragazzetto che si mette un po’ di tulle trasparente sul torace nudo e tatuato, o un po’ di mascara sugli occhi, con la creazione di un eteronimo alla Pessoa da parte di Gianluca Gori, che ha fornito la sua Drusilla Foer di un’autentica biografia indipendente?

Altra classe, altro stile. L’omosessualità è qualcosa di più di due ragazzi che si guardano negli occhi e si afferrano per il bavero della giacca. “Amore tra uguali” significa poco, quel che conta è la diversità.

Fissare il limite

Italian newly re-elected president Sergio Mattarella leaves at the end of his installation ceremony at the Quirinale presidential palace after his swearing-in ceremony in the parliament in Rome, Thursday, Feb. 3, 2022. (Guglielmo Mangiapane/Pool via AP)

Ma la cosa su cui vorrei insistere, perché di nuovo coinvolge il versante politico e quello canterino, è una lettura che è stata fatta a due voci da Marco Mengoni e Filippo Scotti (il protagonista dell’ultimo film di Sorrentino): coi cellulari in mano, han cominciato a snocciolare tweet che all’inizio sembravano soltanto commenti spiritosi o amari sul Festival («offresi servizio sveglia all’1:50 per la classifica finale»; «Sanremo è come la mia vita, ogni anno dico quest’anno sarà meglio e poi fa sempre schifo uguale»), poi diventavano body shaming («handicappato obeso») e infine si scatenavano in folate di odio («devi svegliarti morto domani»).

Il cantante e l’attore hanno commentato a modo loro l’articolo 21 della Costituzione: «Puoi dire quello che vuoi ma non puoi dire il cazzo che vuoi… esercitare il diritto di parola non comporta violare la dignità di qualcuno, c’è un limite». Già, questo è il punto.

Fissare il limite, nell’èra dei social, senza censurare. Far vergognare chi dice cose intollerabili, d’accordo, anche se è un vasto programma; ma bisogna arrivare a sperare che le cose intollerabili non vengano più nemmeno pensate?

Dobbiamo abolire l’inconscio (e il comico che sull’affiorare dell’inconscio ci vive)? I versi di Franco Arminio che i due hanno letto alla fine sembravano, ingenuamente e volontaristicamente, andare in questa direzione («la povera vita adulta/ non può pagare a oltranza/ i debiti dell’infanzia»).

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Quel che si può dire e quel che non si può, oltre che dalla censura sociale, può essere determinato dall’opportunità diplomatica: le trattative serie, si sa, devono essere segrete. Non si può fare un conclave in streaming.

Qui i social invece che essere un moltiplicatore sono un intralcio; durante le votazioni per il Quirinale era tutto uno slalom di politici che evitavano i giornalisti col tormentone «buon lavoro!», ma poi si facevano tentare da qualche tweet di troppo.

E i giornalisti tesaurizzavano talmudicamente ogni virgola, ogni espressione facciale, tutto quel che potesse alimentare la suspense. I social sono il vero banco di prova della comunicazione, come Spotify è ormai lo strumento decisivo per ascoltare le canzoni e gli ascoltatori sono mediamente anche follower.

Queste mutazioni violente è come se la televisione le percepisse in sogno; la sua vocazione è non urtare nessuno, sedare e sopire, alludere agli strappi senza affrontarli di petto. La televisione ha nel dna il bisogno di risultare simpatica a tutti i costi, di ovattare la realtà in una simulazione ottimista della realtà; la religione, le bestemmie, i delitti, i soprusi, le perversioni, le disperazioni, le rivolte, vi vengono accolti come attraverso un filtro in base al loro tasso di spettacolarità.

Perfino i profeti di apocalissi devono risultare glamour. La verità delle persone e dei conflitti svapora dietro la necessità che ha la tivù di apparire accattivante (il che la rende irredimibilmente volgare); un po’ come la politica intende proteggerci dalla possibile crudezza del futuro (il che la rende disperatamente vile).

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