Questo Sanremo ha segnato la vittoria della moda maschile su quella femminile, è evidente e non fa che confermare uno spostamento tettonico che sia i designer che lo streetwear che la pura e semplice attitudine maschile di strada mostrano da anni e di cui abbiamo parlato di recente.

Non si tratta solo del trionfo delle maison, dei brand di nicchia e delle loro imitazioni fallite – per dirla con l’insuperato Tommaso Labranca - mano a mano che scendevano giù dallo scalone dell’astronave insensata disegnata da Gaetano Castelli. Maison che dall’inizio degli anni Ottanta hanno forzato coraggiosamente la mano per arrivare fino a qui, e oltre.

Si pensi in particolare a Pierpaolo Piccioli con Valentino arrivato pochi giorni fa a proporre a Parigi una meravigliosa haute couture al maschile, mantelli impalpabili, ricami e metallo lavorato in trasparenza in particolare magnificati in questi giorni sul corpo di Blanco (e la cui imitazione appunto fallita abbiamo visto proliferare nella serata finale). O il Gucci di Alessandro Michele con Anchille Lauro, ormai disperso con naturalezza nel contesto generale. O il Prada o il Fendi di Mahmood e soprattutto ancora - è la seconda volta per lui - una gonna maschile disegnata da Riccardo Tisci per Burberry e vista da decine di milioni di italioti, a 40 anni dalla sua prima apparizione con Yamamoto e poi Gaultier, vivaddio.

E poi il colore rosa ovunque, banalità. E ancora il petto nudo sui jeans di pelle come omaggia non tanto a Iggy Pop ma alle periferie appunto, quelle vere (con Rkomi, pur fallimentare). Ma anche l’eleganza con giusti tocchi frou frou, ma sempre a proprio agio, della parte silver: Gianni Morandi in Armani, e gli altri, a dimostrazione di una categoria di consumatori di quarta età in salute di mente e corpo.

È la debolezza femminile a colpire: inefficace, conservatrice (anche quando fa vecchio cabaret Moschino con La Rappresentate di Lista), goffa, poco sensuale ma anche poco regale. In poche parole poco innovativa, poco evoluta, come di fatto è da tempo nel suo consumo adulto. Tranne quella consapevolmente dimessa e istintivamente melancolica di Sabrina Ferilli, la coraggiossima esibizione da parte di Donatella Rettore di una biologia fuori controllo, nonché, per giro dell’orologio, quella sartoriale e non a caso impeccabile e marellagnellesca di Drusilla.

Oltre il patriarcato e il resto

Usiamo la superficie dello stile per capire come sia riuscito ad Amadeus  il miracolo di far scavallare molte questioni centrali sulle quali sono stati spesi anni e anni: la fine del patriarcato, la normalità della scomparsa dei generi binari, l’accettazione della “nudità”’ del destino e in assoluto della solitudine della maschilità proprio come ci dicono i dati demografici (sulla Milano capitale dello stile, per esempio).

Perché quello a cui abbiamo assistito ha visto al centro l’importanza musicale di curare, di sciogliere nei tre minuti di ogni canzone la sofferenza (l’ha detto Sangiovanni, sempre perfettamente casualchic dentro la sua età) e il trauma profondo dei due anni fin qui trascorsi. Non solo.

Il festival ha celebrato a suo modo anche il +6,5 di crescita col canta-che-ti-passa di metà del repertorio ma ha anche dato solite basi per il futuro del paese proprio attraverso la delicatezza e il bromance dei vincitori (e la bellezza folgorante delle seconde generazioni di neoitaliani, e di quella impressionante, inedita, dei nostri figli). Come a curare quella ferita enorme che non solo la pandemia – e la paurosa onda di malessere psichiatrico spesso maschile e adolescente che ne è derivata – ma anche le botte testosteroniche ai ragazzi.

Un’arma, questa, solo apparentemente morbida contro la rabbia che sta scoppiando ovunque – vestita in felpe con loghi che sono dei calci in faccia - e che solo il rapporto Censis della fine dell’anno scorso ha avuto il coraggio di gridare come pericolo assoluto e sacca di pus irrazionale pronta ad esplodere (non a caso individuata con la solita precisione da Checco Zalone).

Ciò che i veli ricamati e il ritorno alla bellezza di vetro che questi ragazzi ci hanno mostrato non è tanto la fluidità che ormai ogni under20 dà  per scontata – salvo frange bullofasciste – ma lo sciogliersi semmai dei groppi e nodi e cicatrici che stanno ovunque e che l’abracadabra di questi passati cinque giorni sembra essere riuscito a iniziare a sciogliere, ad allentare, in questo senso a fluidificare.

La moda degli ultimi anni parlava già di questo. Ora è diventata la nuova vita e basta, quella nuova strana vita che ora iniziamo vagamente a intravedere. In trasparenza, ma è già molto. 

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