Quando proposi a Einaudi di scrivere un libro sulla storia del film di Sergio Leone C’era una volta in America, più di dieci anni fa, li convinsi che non sarebbe stato uno scavo archeologico, ma un viaggio nell’eterno tempo presente del mito. Non immaginavo quanto fosse vero, pure – anzi, più che mai – in questo 2021 in cui il libro è finalmente uscito. Il titolo è Che hai fatto in tutti questi anni, e i ragazzi che amarono il film quando uscì, hanno più o meno cinquant’anni, all’incirca l’età che Leone aveva allora (55, anche se lui per la barba, la saggezza e una certa comprensione di come va il mondo sembrava decisamente più vecchio).

Riferimenti leoniani

In questo 2021 arriva (su Netflix e al cinema) un film di Paolo Sorrentino in cui C’era una volta in America è più volte citato, nella forma di una videocassetta vhs che a quanto pare ebbe un ruolo non secondario anche nella sua vita vera: «Nel salotto avevamo quaranta libri e qualche videocassetta di mio fratello: soprattutto Sergio Leone. E comunque C’era una volta in America resta tra i primi cinque film preferiti», raccontò lui stesso al Corriere della sera cinque anni fa (gli altri quattro titoli che citò quella volta erano tutti di Federico Fellini). Due anni prima, di fronte ai giornalisti americani che lo interrogavano come candidato a quell’Oscar che poi vinse con La grande bellezza, alla domanda “Qual è il film che l’ha folgorato?” rispose senza esitare: «C’era una volta in America di Sergio Leone».  

Provate a rivedere La grande bellezza mettendo per una volta in un angolo le suggestioni felliniane. Quando chiedono a Jep Gambardella perché non ha più scritto un libro dopo il primo, che ebbe un certo successo, lui risponde: «Perché sono uscito troppo spesso la sera». Che è il negativo di ciò che risponde Noodles al vecchio amico Moe: «Che hai fatto in tutti questi anni?» «Sono andato a letto presto». Quanti anni sono trascorsi, da quel libro di Jep? Trentacinque, gli stessi che passano tra la fuga da New York e il ritorno nel Lower east side di Noodles. E quelle battute apodittiche, a volte aforistiche, che Leone diceva di aver preso da Raymond Chandler?

Si potrebbe andare avanti ancora, ma il punto è questo: la scena de La grande bellezza sarà anche felliniana, il personaggio, l’eroe/antieroe, è certamente leoniano. Ora Sorrentino è pronto ad ammetterlo, sia pure in modo piuttosto obliquo.

Non è solo che il canone dello storytelling novecentesco andrebbe rivisto, almeno per quanto riguarda l’Italia (difficile, se chi scrive di cinema oggi su molti old media è ancora lo stesso di allora, o un suo parente stretto, o il discepolo prediletto), sta succedendo qualcosa di ancora più interessante.

La generazione che ha amato C’era una volta in America, che si è interrogata sulla sua controversa moralità, che ha cercato un «modo di vedere le cose», è giunta finalmente alla maturità. A 51 anni, Sorrentino è pronto a rinunciare alla sprezzatura dietro cui amava nascondersi per fare i conti con le ferite più profonde. A 45 anni, Gabriele Mainetti, che già con Lo chiamavano Jeeg Robot aveva fatto gridare al miracolo (un film italiano capace – come avrebbe detto Leone – di raccontare con l’avventura e il mito «i piccoli fantasmi che abbiamo dentro» non si vedeva da anni), con Freaks Out ha messo insieme i racconti di sua nonna e Sergio Leone.

Non solo: Mainetti da Leone ha preso il carattere più complicato da imitare, quel pensare in grande che sembra impossibile in Italia. Il film è costato 12 milioni di euro, qualcuno dice 14, ha una storia produttiva complessa, ha ambizioni e dimensioni abbastanza inusitate per il nostro cinema e in effetti è stato accolto con un certo sospetto dalla lobby del tinello marron. Su cinque film italiani in concorso a Venezia 2021, ben due portano con sé riferimenti piuttosto espliciti a C’era una volta in America. Vorrà pur dire qualcosa. 

Boomer e generazione noodles

Credo di aver capito come si distingue facilmente un boomer da chi appartiene alla Generazione noodles. Per i boomer, Sergio Leone è il regista degli spaghetti western. Dici Leone e loro pensano subito a Clint Eastwood, ai primi piani, alle pistole, magari a quelle facce da commedia italiana che lui piazzava nel suo West andaluso. Noi invece siamo noodlesiani, anche per ragioni anagrafiche: tra il 1971 e il 1984 Leone non ha fatto film, e il primo che ha visto in sala chi è nato dalla metà degli anni sessanta è C’era una volta in America. Per tanti di noi quel film è una mappa, una stele di Rosetta. Per capirsi al volo basta mostrare la videocassetta come Sorrentino, oppure citare una battuta. Come faceva Vinicio Capossela (oggi 55 anni) con Marleo, l’amico pittore di soldatini, quando entrambi erano molto più giovani.

Erano inseparabili, da ragazzi, lui lo chiamava Nutless. Parlavano con le frasi di Max e Noodles, sognavano di fumerie d’oppio nelle quali rifugiarsi per attutire l’impatto della vita. Poi però la vita, oppio o non oppio, ha fatto il suo corso, il telefono in bachelite nera uguale a quello che squilla per ventiquattro volte all’inizio del film è rimasto inutilizzato per anni. Fino a quando Nutless si è fatto vivo, a raccontare fallimenti e matrimoni finiti. E Vinicio ha scritto la canzone. «Il pezzo fu tenuto in ostaggio a lungo dal tentativo di farlo arrangiare dal maestro Morricone… Poi di Morricone restò il fantasma dell’aria di Deborah evocata dal theremin e vennero i corni di bassetto di Nanni e la dixieland band da funerale del proibizionismo. La Dixie Jambalaya Six, per stappare col botto la vita. To be or not to be (Shakespeare). To do or not to do (Confucio). Shabidubidu (Frank Sinatra)».

La canzone di Vinicio ha un titolo assurdo (Dove siamo rimasti a terra Nutless), risale al 2006, lui ne racconta la storia nel recente librone Eclissica, appena uscito con Feltrinelli, ma già se ne parlava nel suo primo libro, Non si muore tutte le mattine. Questo nuovo ha quasi seicento pagine, è una specie di diario compreso tra le epifanie di due papi in piazza San Pietro, tra i funerali di Papa Wojtyla e la preghiera sulla spianata deserta di Papa Bergoglio durante il lockdown. Roba seria, tutta nervi niente grasso come direbbe Vinicio, roba da Generazione noodles.

«A settembre il telefono squillò e Nutless quella volta rispose».

«Lehaim», disse. «Lehaim», risposi.

«Ho una cosa che ti riguarda da farti ascoltare».

Così Nutless, dopo quindici anni, salì in città. Era andato a letto presto la sera.

Preparai lo champagne, chiusi due ore lo studio e ce lo portai dentro.

Quando ebbe ascoltato il pezzo disse: «Nutless, cos’è, è il tuo modo di vendicarti?».

«No, senatore Bailey, è soltanto il mio modo di vedere le cose».

(Sempre da Vinicio Capossela, Eclissica).

Quella battuta («È solo il mio modo di vedere le cose») non piaceva granché a quelli che l’hanno scritta, cioè Leone, Enrico Medioli, Benvenuti & De Bernardi. Giulio Reale, che ha realizzato un documentario sul cinema di Leone e l’ha intitolato Il mio modo di vedere le cose, mi ha passato il nastro dell’intervista che ha realizzato con Piero De Bernardi, che invece io non sono riuscito a incontrare (è morto nel 2010). Di quella battuta, «È il mio modo di vedere le cose», De Bernardi dice: «Non ne è venuta una forte. Abbiamo tenuto quella, ma ci abbiamo pensato per giorni interi, non abbiamo trovato niente di meglio».   

Era finita lì un po’ per caso, allora, ma noi della Generazione noodles non lo sapevamo e non ce la siamo lasciata scappare. La battuta-che-poteva-essere-migliore è diventata il nostro inconsapevole motto. Siamo diventati visionari, Sorrentino, Mainetti, Capossela, tutti noi. Ok, le parole sono importanti (cit.), ma ciò che vedi lo è di più. E ti aiuta a cavartela, sempre: ehi, whatever, nevermind (anche Kurt Cobain è uno di noi), è solo il mio modo di vedere le cose!

Forza misteriosa

Non sto qui a parlare di post-moderno, forse è più adatta la categoria del post-ideologico. Questo film ha in sé una forza misteriosa che chi si occupa di cinema per mestiere non capirà mai.

Sono stato a Catania di recente per parlare del libro. Un mio coetaneo, un cinquantenne di cui conosco solo il nome, Claudio, ha raccontato di essere andato a vedere C’era una volta in America in una delle grandi sale della sua città nei giorni dell’uscita, nel’autunno del 1984. Al termine delle quasi quattro ore di film, davanti al cinema, lui e decine di spettatori come lui, che in gran parte non si erano mai visti prima, sentirono il bisogno di fermarsi a discutere di ciò che avevano visto. Forse per prolungare il delirio oppiaceo in cui erano incredibilmente finiti, forse per cercare una ragione dove la ragione non c’era, c’era solo il sentimento del Tempo. Non gli è mai più capitato, in tutta la vita, mi ha detto Claudio.

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