Centro clinico di un carcere del sud, pochi anni fa. Aspetto che gli agenti di polizia penitenziaria accompagnino la persona che devo visitare. È un seviziatore di prostitute anziane. È cattivissimo, è violentissimo. Ha un modus operandi da manuale di criminologia. A leggere i giornali, è l’ultimo serial killer arrestato in Italia. Penso due cose: che mi troverò di fronte a una persona dal fascino irresistibile, come Ted Bundy, che dovrò districarmi fra le mille trappole manipolative che potrebbe tendermi un uomo brillante almeno quanto Ed Kemper, uno con un quoziente intellettivo di 148. Ipotizzo di incontrare il mostro, invece di fronte a me si siede uno che assomiglia a Barbapapà, a Poldo, a Gargamella. Tralasciando quanto io possa rivedermi nei suoi movimenti goffi, quella normalità esitante, timida, perfino ottusa, mi inquieta e assume, in tempi molto rapidi, una connotazione perturbante.

L’elemento perturbante

Illustrazione Pixabay

Inteso in senso psicanalitico, “perturbante” è il termine che identifica qualcosa in grado di produrre, in noi, un effetto straniante per via del mescolarsi di sensazioni di familiarità e di estraneità legate alla paura. Il perturbante sollecita sia un senso di onnipotenza sia un senso di paranoia, è intimo e familiare ma assume forme estranee, angoscianti. Per questo, ci sconvolge.

Una bambola in un film horror. Pennywise, il pagliaccio di It. Il bosco di The Blair witch project. Le gemelle di Shining. Nel perturbante, vediamo noi stessi al di fuori di noi.

Dentro l’incomprensibilità di un seviziatore di prostitute anziane, dietro il riconoscimento di certi stili di pensiero, di certe modalità operative che travalicano quello che la psichiatria identifica come sintomi e definisce, eventualmente, come malattia, io stesso individuo senza sforzi chiavi di lettura della quotidianità che non sono poi così diverse da quello che il sentire comune definisce: “normalità”, da quello che potrebbe essere il mio modo di pensare.

Normali e mostri

Illustrazione Pixabay

Il tema non è l’epifania dell’elemento alieno, patologico, all’interno di noi stessi, il punto non è: siamo tutti potenziali serial killer. La prospettiva, qui, si capovolge. Il tema sono gli aspetti famigliari, gli elementi con cui si ha dimestichezza, quelli riconoscibili nei ragionamenti di chi la società percepisce come il male assoluto. Il punto, quindi, è: quanto hanno in comune il modo di essere di una persona cosiddetta: “normale” e quello di uno che, per definizione, è considerato “mostro”?

Quest’ottica invertita è una delle chiavi più interessanti di Tutto era cenere. Sull’uccidere seriale, di Simone Sauza (edito da Nottetempo, 2022). Dove l’autore, che utilizza una tecnica di scrittura a metà fra il saggio e un flusso di coscienza, in cui l’uso della prima persona assottiglia proprio la distanza fra “noi” e “loro”, si muove con lucidità dentro un perimetro magmatico, al confine fra filosofia, psicologia e sociologia.

Sauza semplifica la complessità senza mai risultare semplicistico. Lo fa attraverso una riflessione che ruota attorno a due cardini: la mancanza di soggettività nella ricerca di soggettività del serial killer e il modo in cui il desiderio del serial killer crea relazioni, si rapporta ai momenti storici, si embrica con la violenza.

Quanto, tutto questo, riguarda solo “loro” e non anche “noi”? Nel suo stravolgimento di visuale, Tutto era cenere rilegge la sessualità e usa la “loro”, cioè la sessualità dei serial killer, per esplorare gli aspetti più sinistri della “nostra” sessualità.

Gioca con i meccanismi che sottendono fascinazione e repulsione nei confronti dell’orrore al tempo del pulp e del true crime. Scandaglia anfratti dell’immaginario pop. Si muove fra film, libri, cultura di massa, incubi metropolitani. Passa dal mito di Perseo che sconfigge Medusa, ad Armin Meiwes, il cannibale tedesco che, nel 2003, pubblica un annuncio su un sito internet in cui cerca qualcuno disposto a farsi mangiare.

Mette le mani dentro la specularità che esiste fra la “loro” de-umanizzazione della vittima, ridotta a pura funzione libidica, e quella “nostra”, quando partecipiamo da osservatori alle esecuzioni capitali in Usa, quando bordeggiamo fra le pagine di Rotten.com, uno di quei siti internet in cui si trovano immagini senza censura di vittime di incidenti, foto di omicidi e altre deformità, quando ci accomodiamo su un divano per guardare uno snuff movie.

L’evoluzione del killer

Illustrazione Pixabay

Sauza segue l’evoluzione della figura del serial killer per comprendere alcuni aspetti della società in cui viviamo tutti. Colloca la loro Golden age americana negli anni Ottanta. Gli anni dello sviluppo degli investimenti in infrastrutture urbane che consentono di muoversi di più sulle lunghe distanze, che facilitano le mimetizzazioni criminali, che aprono nuove vie di fuga per i carnefici e nuovi vicoli per le potenziali vittime.

Negli anni in cui il reale diventa mediatico, nel tempo in cui la televisione e il sensazionalismo raggiunge l’apice nella tv commerciale, il serial killer si trasforma in una celebrità e viene consacrato, aggiungerei, sull’altare dell’uso ideologico della narrazione reaganiana dei buoni contro i cattivi, del nemico da sconfiggere con i super poteri della Behavioural Science Unit, dei mindhunter

Tutto era cenere ricostruisce carriere criminali di assassini noti e meno noti, solleva questioni ambigue come ambiguo è il tema che maneggia. Accetta l’idea che non tutto si possa spiegare, non cede al tranello che ogni malattia si possa guarire: l’onnipotenza delle cure psichiatriche è un’idea tanto tranquillizzante quanto fallace, i protocolli terapeutici per le patologie che più spesso vengono diagnosticate ai serial killer sono molto lontani dall’essere efficaci.

Si interroga su come mai, oggi, la percezione sociale è che il serial killer sia una figura che fa parte del passato. Offre ipotesi, chiarisce, rivolta gli interrogativi, incuriosisce. Quando si esplorano territori violenti, inopinati, abissali come questi, il convitato di pietra è sempre il libero arbitrio.

Capacità di scegliere

È responsabile delle sue azioni il serial killer? Si può essere malati e, allo stesso tempo responsabili dei propri comportamenti. Da vicino nessuno è normale, certo. Ma, a meno che non abbiano malattie in grado di fargli perdere il contatto con la realtà, quasi sempre la risposta è: sì.

Per quanto perversi possano essere, i serial killer sono consapevoli di quello che fanno, hanno margini di scelta, sono in grado di organizzare e differire i loro progetti, sono capaci di prospettare le conseguenze future dei comportamenti.

Tutto era cenere pone questioni che riguardano il sadismo sociale, la paranoia, il bisogno di possesso, l’ossessività, il narcisismo patologico che è la patologia del nostro tempo: il desiderio di ottenere tutto e subito, la ricerca di grandiosità a basso costo. Si interroga sulla pulsione omicida, si domanda che tipo di mondo percepisce un omicida seriale, da quale angolatura del suo spazio umano si definisca il suo abitare la società.

Cerca un orizzonte di senso consapevole del fatto che, nel caso del serial killer, si tratta di un’ambizione irraggiungibile perché il serial killer stesso non è in grado di spiegare il suo smarrimento ontologico, tanta è l’alienazione al fondo di sé stesso.

Sauza non elude il problema clinico dei serial killer, però lo fa senza generalizzazioni e si tiene al riparo da frettolose etichette diagnostiche che falliscono inesorabilmente di fronte alla complessità di uno stato al limite dell’esperienza umana.

Diagnosi consolatoria

Si guarda bene dal tracciare una linea di confine netta fra “noi” e “loro”. Una linea rassicurante perché dire che i serial killer sono pazzi è un modo per dire: io non sono pazzo, io non potrò mai fare quello che hanno fatto loro.

La diagnosi psichiatrica, in questi casi, funziona da ansiolitico, è consolatoria. Solo che rabbia, violenza, cattiveria, frustrazione, desiderio di controllo ci appartengono, sono modi di essere profondamente umani e non la rappresentazione esclusiva di una malattia mentale.

Il serial killer abita la stessa realtà degli altri, e per altri intendo “noi”. Lo fa, scrive Sauza: «Con uno sguardo che viene da un altrove». Lo fa percorrendo sentieri che percorrono anche gli altri, nonostante questa convivenza trovi sempre resistenze ad essere accettata.

Ecco. Le resistenze. Forse proprio da queste resistenze ad accettare una coabitazione sulla linea di confine fra “noi” e “loro” è originata la mia reazione infastidita, turbata, al primo incontro con quella specie di Barbapapà nel centro clinico di un carcere del sud.

© Riproduzione riservata