«Guardatevi attorno, siamo ancora tra voi». Il monologo con cui si apre M – Il figlio del secolo, una delle serie tv più attese della stagione, trabocca di inquietudine e mette lo spettatore davanti a una scelta stilistica e narrativa potente; non (solo) una serie storica su un periodo tragico del Novecento, ma un monito diretto a osservare senza sconti come l’esperienza del fascismo sia potuta germogliare nel nostro Paese, quali umori e sentimenti abbia intercettato e come quella scura fascinazione possa continuare a esercitarsi quando le democrazie cominciano a indebolirsi.

Il ritratto che la serie, prodotta da Sky Studios con The Apartment e Fremantle, fa di Benito Mussolini è una micidiale miscela di grottesco e violenza, di calcolo e trasformismo, di impeto rivoluzionario e bieco interesse privato.

Ispirata alla monumentale opera di Antonio Scurati, di cui gli otto episodi rappresentano il primo atto della trilogia, quello dell’ascesa del fascismo e del concepimento della dittatura, M. è il racconto disturbante e osceno di un’epopea che sarebbe riduttivo consegnare unicamente al passato.

La regia di Joe Wright (artefice de L’ora più buia) e la sceneggiatura di Stefano Bises e Davide Serino (rispettivamente writers di Gomorra – La serie ed Esterno notte) esaltano proprio questa natura malvagia e terrena di Mussolini e dei suoi uomini, il loro essere al contempo consegnati alla storia e tremendamente attuali nelle parole d’ordine («giuste, semplici, dirette») con cui blandire masse disorientate e dimenticate.

Il regista britannico ha dalla sua la distanza culturale con un tema che da noi genera ancora divisioni, distinguo, ritorni; lo fa permettendosi virtuosismi che ci calano nell’epoca, come l’uso dell’iride (tecnica tipica del cinema muto) o il bianco e nero dei cinegiornali, e che puntano però dritti alle nostre coscienze più intime e contemporanee, con il Duce che parla direttamente in camera, si rivolge agli spettatori rompendo la quarta parete, svela loro i meccanismi più subdoli della scalata al potere come il Frank Underwood di House of Cards, e con una musica contemporanea firmata da Tom Rowlands dei The Chemical Brothers che batte il ritmo incalzante e ossessivo di una discesa verso l’abisso.

A dare volto, voce e peso alla doppia natura di Benito Amilcare Andrea Mussolini (tre nomi di battesimo ispirati ad altrettanti esponenti socialisti e rivoluzionari) è una straordinaria interpretazione di Luca Marinelli. Un Mussolini veemente e attendista, violento e (finto) pacificatore, antipolitico e politicista, selvaggio e famigliare, dalla parte degli sfruttati e al soldo della borghesia industriale impaurita, “romano” nei salotti e romagnolo d’indole nel privato (efficace la scelta di usare prevalentemente il dialetto nei dialoghi con la moglie Rachele). Come un prisma, Marinelli restituisce di volta in volta i tasselli di un’esperienza costruita sulla contraddizione e sulla menzogna, sulla convinzione esplicitata che davvero «il fascismo è tutto e il contrario di tutto».

La serie racconta la prima fase delle camicie nere, dalla fondazione dei Fasci di combattimento nel 1919 al fatidico discorso del 3 gennaio 1925, quello in cui Mussolini si assume la responsabilità dell’omicidio Matteotti e segna, di fatto, l’inizio della dittatura in Italia; una rapida escalation ricca di cambi di direzione, di fallimenti e insperati sostegni, di tradimenti e ripensamenti, di congressi in cui l’abilità oratoria si rivela cruciale per piegare anche i “camerati” più riluttanti.

Marinelli dipinge un dittatore non solo spietato, ma anche impacciato, che usa bombe a mano come antistress, che non sa prepararsi una valigia, che viene sbeffeggiato dai socialisti mentre cova una vendetta che sembra più personale che politica (lui che fu cacciato dalla direzione dell’Avanti e poi ne ordina l’assalto e la distruzione della redazione). È un Mussolini istrionico, quasi uno stand-up comedian nelle sue doti da imbonitore, quasi una parodia di se stesso in tenuta da aviatore in volo verso Fiume, mentre intorno a lui gravita un caleidoscopio di figure losche e acute: Cesarino Rossi (il toscano consigliere, una sorta di personalissimo “grillo parlante”), Albino Volpi e Amerigo Dumini, gli organizzatori della violenza sistematica, due che al solo cenno del capo non esitano a scatenare l’inferno in un’osteria o a gettare bombe nei cortei socialisti.

E ancora Italo Balbo, Gabriele D’Annunzio, Margherita Sarfatti, l’amante raffinata che ne asseconda e indirizza le ambizioni (una bravissima Barbara Chichiarelli). E naturalmente i politici del periodo che con le loro titubanze e i loro balbettii aprirono la strada al ventennio (Nitti, Giolitti, il re Sciaboletta Vittorio Emanuele III), fino all’unico capace di opporvisi pagando con la morte, quel Giacomo Matteotti interpretato da Gaetano Bruno e dipinto come autentico eroe tragico.

Diversamente dal romanzo di Scurati, l’adattamento della serie tv sceglie di impostare il racconto in prima persona, non come se leggessimo una storia, ma come se ne fossimo parte, accomunati da un destino che prende forma poco alla volta tra l’impotenza e la complicità degli italiani. Ciò che sorprende, sin dai primi episodi, è l’uso gratuito e talvolta immotivato della violenza, il dispositivo con cui Mussolini attizza il materiale incandescente di un manipolo di reietti abbandonati, reduci di guerra cui non è rimasto niente, «cani rabbiosi» e «materiale di risulta» con cui Mussolini si mette in mente, riuscendoci, di fare la storia.

Come aveva fatto Sergio Zavoli nella sua inchiesta del 1972 Nascita di una dittatura, intervistando decine e decine di testimoni di quella stagione, l’aspetto che qui interessa non è la parte di fascismo più nota (le leggi razziali, la guerra), ma la sua genesi, fatta di un risentimento mascherato da riscatto sociale, che incontra ben presto il favore dei ceti produttivi e della borghesia, cui viene facile promettere di «mutare la paura in odio».

In questo senso, il fascismo di M – Il figlio del secolo è da intendersi più come biografia della nazione che come racconto di un singolo individuo, il prodotto culturale di pulsioni e interessi solleticati al momento opportuno, la risposta a umori sopiti. C’è una frase che il Mussolini di Marinelli ripete spesso nei momenti cruciali di scelta e cambiamento della serie: «Sono come le bestie, sento il tempo che viene»; è in quella metafora contadina che si racchiude il senso non solo di un’ideologia, ma di un modo di essere che avrebbe segnato il costume italiano anche negli anni a venire.

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