Se il web fosse un continente, sarebbe la porzione di terraferma più popolata del pianeta. Oggi gli utenti della rete sono più di cinque miliardi: quasi il 65 per cento della popolazione globale tutta stipata dentro il cyberspazio.

L’Asia, per dire, supera di poco i quattro miliardi e mezzo. Niente male, per un continente che fino a trent’anni fa praticamente non esisteva nemmeno. Di pari passo con la sua sfrenata crescita demografica, la rete ha cambiato aspetto, diversificato la popolazione e i relativi usi e costumi. Ha ampliato a dismisura i propri confini e moltiplicato tipologia e funzione delle infrastrutture.

Sovrani e regimi politici si sono alternati alla rapidità con cui il potere passa di mano nelle società giovani e inquiete, e le ideologie che la governano sono mutate di conseguenza. Insomma, tutto ciò che accompagna l’evoluzione di un nuovo mondo, reale o virtuale che sia.

Con una differenza: sul web il tempo scorre in modo diverso. C’è il tempo del codice e delle innovazioni tecniche, degli aggiornamenti continui, della creazione inarrestabile di nuove piattaforme, nuovi strumenti e dispositivi.

E c’è il tempo dell’uomo, che è quello dell’adattamento, delle abitudini, dell’obsolescenza non programmata. Il primo corre a velocità doppia, se non tripla, rispetto al secondo.

E in un mondo in cui l’età media è sempre più alta (in pochi anni gli over 65 saranno il 30 per cento della popolazione) questo inizia a diventare un problema. In altre parole: la rete è giovane, ma chi la abita è sempre più vecchio.

Testi divergenti

A far luce sul problema, l’uscita quasi contemporanea di due libri dedicati allo stesso tema: Sei vecchio di Vincenzo Marino (nottetempo) e Invecchiare al tempo della rete di Massimo Mantellini (Einaudi). Due testi che partono da premesse analoghe (la constatazione che per la prima volta l’umanità si ritrova a invecchiare in un ambiente diverso dalla realtà) e arrivano a prospettive diametralmente differenti. Letti insieme, i due testi rappresentano il primo tentativo di sviluppare una specie di “sociologia della vecchiaia digitale”.

Nato dalla sua newsletter Zio, lanciata nel 2019 per raccontare trend e abitudini delle nuove generazioni, Sei vecchio è senza dubbio lo studio sulla cultura digitale più istruttivo e documentato che mi sia capitato di leggere da tempo.

Se lo leggiamo come ciò che in fondo è, cioè la cronaca di un’esplorazione, il racconto di Marino somiglia un po’ a quei resoconti tra l’etnografico e il mitologico, l’antropologico e il fantastico che i navigatori cinquecenteschi riportavano al ritorno da terre misteriose di là dal mare: la ricognizione di un territorio digitale tanto vasto quanto ancora pochissimo conosciuto, «la parte dell’internet abitata dai più giovani», quelli della Generazione Z, i nati tra il 1997 e il 2012: i primi esseri umani a vivere la rete come un fatto naturale, parte integrante dell’esistenza quotidiana.

E a costruircisi uno spazio tutto loro, con linguaggi e codici specifici, comportamenti e credenze ben precisi.

Siamo tutti boomer

Tra sfondi fluo e jingle ossessivi (“Vedi nel parchetto, spaccio cocaina”; “Con mollica o senza?”), capre con milioni di follower e video motivazionali al testosterone, dirette che durano anche 900 ore di fila, sessioni di gaming e storie inquietanti al limite del paranormale (il mostruoso pupazzo Huggy Wuggy), Marino ci guida a capire un mondo di cui ci ostiniamo a ignorare la presenza con la stessa pervicacia con cui i suoi abitanti ignorano la nostra, condannandoci all’insostenibile e solitaria irrilevanza dei boomer.

Noi, rappresentanti di «generazioni che sfioriscono e invecchiano in rete per la prima volta, in tempo reale, mentre s’accorgono – ci accorgiamo – d’essere diventati sempre più irrilevanti man mano che l'offerta contenutistica avanza».

A proposito: era il 1996 quando Bill Gates, con la famosa massima “content is king”, annunciava che nel futuro del web il contenuto sarebbe stato tutto. Oggi siamo andati oltre: nel nostro presente ogni cosa è contenuto, il content è morto, viva il content.

Internet e la vita

La rete frequentata dalla Gen Z è un eterno tapis roulant di surreali divinità ed effimeri eroi, situazioni grottesche, reazioni esasperate e scenette ripetute allo sfinimento, tutto con le stesse caratteristiche e il medesimo obiettivo: l’urgenza di trovare un contenuto vincente, cavalcare le correnti ascensionali della popolarità e monetizzare letteralmente qualsiasi minima azione quotidiana.

A volte sfiorando anche la soglia della perdita della salute mentale, e sempre in bilico tra il servo encomio e il codardo oltraggio, l’esaltazione fanatica e l’insulto crudele.

Una dimensione divisa dalla realtà da un diaframma sempre più sottile, «come se la vita vera non fosse altro che una porzione teatralizzata di internet, e la propria esistenza un copione da scrivere giorno per giorno in diretta».

E in cui essere bannati online può portare a doversi nascondere anche offline: come accaduto a Sdrumox, bannato per sempre da Twitch a causa di un video che conteneva una provocazione malriuscita sul colore nero (erano i giorni dell’omicidio di George Floyd), e perciò costretto a stare lontano anche dagli schermi dei suoi amici, a rischio sanzione pure loro se per errore il volto dell'esiliato dovesse finire nel perimetro delle loro dirette.

Generazione ambivalente

Ne esce il ritratto di una generazione ambivalente, strattonata di continuo tra pulsioni contrastanti: determinata ma disillusa, ambiziosa e insieme schiva, nostalgica eppure protesa verso un futuro di successo e realizzazione personale.

Attratta dall’irrazionale (molto in voga l’astrologia) e sempre alla ricerca di metodi più o meno scientifici per cambiare il proprio mindset (altra parola chiave della Gen Z) ed esprimere al massimo il proprio potenziale.

Se vi sembra che nulla di tutto questo abbia senso, niente paura: è normale. Come scrive Mantellini, «nessuno è diventato vecchio su internet, almeno fino ad ora». Ecco quindi che capire come farlo, come adattare il fisiologico procedere dell'età ad architetture digitali sempre pensate e disegnate per una platea di giovani, e magari riuscirci senza snaturare se stessi o impazzire, è una questione difficile da eludere.

Per provarci, Mantellini tenta di aggiornare al nostro tempo un breve testo del 1968 di Natalia Ginzburg, La vecchiaia: pagine che «ora restano intatte nella loro bellezza e profondità ma reclamano alcuni aggiustamenti e qualche nuova domanda». Una su tutte: «Come si diventa vecchi oggi?». La risposta è sconsolante. In un tempo in cui l’invadenza della tecnologia pretende modi tutti nuovi di stare al mondo, alla vecchiaia resta solo un rifugio: la finzione.

Vecchiogiovane

L’unico stratagemma a disposizione del vecchiogiovane, cioè il vecchio che rifiuta la propria condizione e si ingegna di imitare i comportamenti delle nuove generazioni, fingendo di essere qualcuno che non è più.

Una figura inedita e un po’ tragica, che attraversa diversi stadi (dalla rivolta alla rassegnazione) per evitare la solitudine, mentre vede la sua cultura diventare archeologia e ogni cosa là fuori farsi sempre più complessa e inaccessibile.

E se la via di fuga non stesse nello sforzo di rincorrere a tutti i costi i nuovi tecnovalori, ma nel loro rifiuto? «Il dominio della velocità» scrive Mantellini «è stata l’ingenuità più grossa che la società occidentale si è concessa negli ultimi tempi», e ci può stare.

Peccato che la sua analisi si fermi sempre un po’ in superficie, indugiando troppo nell’elegia e lasciando l’impressione di aver aggiunto davvero poco a ciò che sull’argomento Ginzburg diceva, senza nemmeno conoscere internet, più di cinquant’anni fa.

Resta il fatto che negli ultimi anni sono diventati sempre più insistenti gli appelli alla rifondazione di una nuova società, che contrapponga la decelerazione al “ricatto della velocità” e restituisca all’uomo il suo naturale passo biologico.

Forse accadrà davvero, chissà. Per ora resta l’impressione che siamo sempre troppo giovani per capire i vecchi, e troppo vecchi per capire i giovani.

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