Quand’è che Gary Oldman è diventato Gary Oldman? Riformulo: quand’è che il vecchio Gary Oldman è diventato il nuovo Gary Oldman? Quand’è che il solito stronzo si è trasformato nel venerato maestro? Quand’è che l’attore di Sid & Nancy, e di Prick Up, e di Rosencrantz e Guildenstern sono morti, e di Stato di grazia, e di JFK, fino alla vetta Dracula di Bram Stoker; quand’è che quell’attore lì è diventato il nume da Oscar dell’Ora più buia? Oldman era il primo attore con le fattezze e l’attitudine del secondo. Era l’incarnazione di quel ribellismo Brit che ha definito un’epoca (dai secondi anni Ottanta ai primi anni Novanta), e una leva di autori e attori non conformi ai canoni di avvenenza e recitazione, in contro tempo e per questo perfettamente dentro il loro, il nostro tempo.

Forse il vero spartiacque è stato Harry Potter. Nel Prigioniero di Azkaban, 2004, forse il capitolo più cinematograficamente bello della saga, Oldman era il personaggio del titolo. Ma, soprattutto, era diretto da Alfonso Cuarón, una voce fuori da Hollywood che stava già contribuendo a confezionare la Hollywood moderna. L’attore vestiva il ruolo che, probabilmente, l’ha fatto diventare definitivamente pop facendolo restare icona d’auteur, sempre dark, punk, inglese al midollo, nelle scelte di carriera, di vita, di traiettoria pubblica e privata. Anche dopo essere diventato il commissario James Gordon del Batman versione Nolan, l’agente fané della Talpa (su questo titolo chiave tornerò), fino al Winston Churchill dell’Ora più buia, che appunto è stato Academy Award, e dunque istituzionalizzazione finale.

Il nuovo come il vecchio

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A conti fatti, Gary Oldman è sempre stato Gary Oldman. Il nuovo è sempre stato il vecchio. Non è un caso che Slow Horses, la nuova miniserie da poco disponibile su Apple TV+, entri in scena sulle note dell’inedita Strange Game, la prima canzone mai scritta da Mick Jagger per una serie, la canzone che dice: «You’re out on a limb, trying hard to get in». Ma anche: «It’s a million to one, there’s a place in the sun».

Oldman dentro il mondo che sembrava tenerlo fuori ci è entrato, il posto al sole lo ha trovato. E non è un caso che, in Slow Horses, entri in scena con una scoreggia, rilasciata mentre è sdraiato su un divano lercio e di lui non si vede manco la faccia, solo i piedi in primo piano, con gli alluci che escono dai buchi dei calzini sudici pure loro.

Slow Horses è uno strano prodotto. Un prodotto di alta qualità, anzi altissima, come spesso accade per le produzioni che passano su Apple TV+. Una piattaforma che, per ovvi motivi, non ha bisogno di affollare l’algoritmo con cinquantasette nuovi titoli a settimana (qualsiasi riferimento a servizi di streaming concorrenti non è naturalmente casuale). E che dunque ne sforna pochi ma buoni, no: ottimi.

È appena terminato Severance (da noi Scissione), creato da Dan Erickson e diretto da Ben Stiller, satira nera sulla vita e il lavoro con un grande cast (Adam Scott, Patricia Arquette, John Turturro, Christopher Walken) e notevoli possibilità di immedesimazione (il punto, in sintesi, è: quanto la nostra immagine pubblica corrisponde a quello che siamo davvero?).

Ed è in corso WeCrashed, storia vera dei tech-coniugi Adam e Rebekah Neumann (sullo schermo interpretati da Jared Leto e Anne Hathaway), passati dalle stelle alle stalle grazie e per colpa della società di coworking WeWork: ancora vita e lavoro, e (dis)connessioni assortite.

Un prodotto bizzarro

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Slow Horses – corale come il primo, scanzonato come il secondo – è un prodotto bizzarro. Uno “spy” piuttosto classico (si veda l’incipit aeroportuale con inseguimento del solito presunto terrorista) che però è anche una commedia perfettamente e precisamente british.

È come se il George Smiley inventato da John le Carré, e interpretato da Oldman nella Talpa (rieccoci), si fosse ritrovato, ormai a fine carriera se non più propriamente fallito, a guidare un team di colleghi alla After Life di Ricky Gervais, la serie Netflix sulla redazione di un giornale di provincia che benissimo racconta l’umanità di quell’isola sempre più lontana da noi.

La Talpa (in originale Tinker Tailor Soldier Spy) è uno dei film migliori – e all’epoca, era il 2011, più sottovalutati – di Oldman. Lo ha diretto Tomas Alfredson, lo svedese del magnifico teen-horror Lasciami entrare e, poi, del pasticcio L’uomo di neve con Michael Fassbender.

Del cinema di spionaggio classico riprendeva tutti gli stilemi, ma la novità stava appunto nell’affidare la parte del compassatissimo protagonista al solitamente debordante, per tutti e pareva per sempre, Gary Oldman.

Slow Horses sembra, appunto, uno spin off ideale di quel film, che però ridà all’attore quello che è propriamente dell’attore. Un certo modo, tornando alla opening song di Mick Jagger, di entrare dentro (dentro il club dei prim’attori, dentro l’istituzione dei premi, dentro le serie di qualità che sono il nuovo cinema) restando sempre con un piede fuori: meglio se avvolto in una calza bucata.

In Slow Horses Oldman è Jackson Lamb, il miserabile capo di uno scalcagnato dipartimento in cui vengono relegati gli agenti scartati dal MI5. Hanno dei casi da seguire ma, come sempre in queste storie, importa di più la loro dinamica interna, e come sono diventati i reietti dell’Agenzia e della società (ancora vita e lavoro), e come s’incastrano tra loro (male, dunque benissimo).

Contiene e tiene insieme tutta la tradizione dell’hard boiled classico – all’inizio, nonostante le scoregge e i calzini bucati, sembra di ritrovare il Philip Marlowe di Chandler, già portato infinite volte al cinema: ne deriva quella lunga filmografia che va da Howard Hawks (Il grande sonno) a Robert Altman (Il lungo addio) – e la commedia inglese alla The Office, con le beghe tra colleghi, le sfighe professionali e umane, le piccole, misere vite che s’incontrano e si scontrano alla macchinetta del caffè.

Ritratto di un paese isolato

E, dello spirito e della tradizione inglesi, Slow Horses restituisce il ritratto di quella che è, dicevo prima, una nazione sempre più isolata, accartocciata sulle sue stesse scelte. La Brexit, nell’adattamento che lo sceneggiatore Will Smith (un omonimo: tranquilli, non volano schiaffi) fa del romanzo Un covo di bastardi di Mick Herron, è uno stato più mentale che politico.

Il libro, uscito nel 2010, parla ancora alla e dell’attualità. La separazione sta nell’eterna esclusione di chi – per etnia, per non conformità a quella solita norma – non piace ai “puri”. Riguarda i generici arabi presi di mira da sovranisti di cui il regista James Hawes tratteggia il solito bozzetto: che, però, non è così lontano dalla realtà.

Ma sta anche in quel “covo di bastardi”, appunto, che non assomiglia alla società costituita, che è fatto di pezzi di scarto, di pezzi di ricambio, di pezzi che non stanno nel puzzle (oppure quelli che nessuno trova più, finiti sotto il tappeto: ma che, per comporre il quadro generale, sono fondamentali).

Slow Horses, dicevo, è una serie molto corale (tra i giovani figurano i bravi Jack Lowden e Olivia Cooke, tra i senior i sempre preziosissimi Kristin Scott Thomas e Jonathan Pryce), ma finisce per essere, come sempre, lo show di Gary Oldman. Che collega i fili anche se resta in disparte, che ha la stazza per reggere quella parte da un punto di vista sia fisico sia intellettuale.

Non datemi del body shamer: gli attori sono anche i loro corpi. E quello di Oldman, che con la sua fisicità sullo schermo ha sempre giocato (si veda, di nuovo, il suo inarrivato Dracula), è oggi più che mai uno strumento indispensabile del suo lavoro.

Lo è stato per definire il Churchill (pur aiutato da molto make up e molte protesi) che gli ha dato la più ambita delle statuette, lo è stato nel recente ritratto di Herman J. Mankiewicz in Mank di David Fincher, lo è in questa personalissima versione del classico agente sfatto e sfinito, che proprio con il corpo e il suo deterioramento – le scoregge, i calzini bucati – gioca fin dal principio. «The odds are against you, the gods haven’t blessed you», canta Mick Jagger. Il bello di Gary Oldman è farci credere che sia andata, che vada ancora così. Quando invece è sempre stato tutto il contrario.

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